martedì 22 dicembre 2009

BUNGEE JUMPING OF THEIR OWN (Beonjijeompeureul hada, 2001) di Kim Dae-sung

Nuova chicca orientale per i miei fidati lettori... e questa volta il caso è ancora più eclatante e sconcertante del precedente, ovvero Conduct Zero (Pumhaeng Zero, 2002) di Cho Keun-Sik. Almeno la pellicola da me trattata in precedenza aveva visto la luce, nel nostro bel paese, in un edizione dvd scarna... la quale non comprendeva neanche l'audio in italiano, ma solo quello originale con i sottotitoli nella nostra lingua opzionabili. A Bungee Jumping of Their Own (Beonjijeompeureul hada, 2001) di Kim Dae-sung è andata sicuramente peggio: esso non è mai uscito qui da noi e non credo, a questo punto, che uscirà mai. Peccato, perché è veramente un bel film! Qui si potrebbe, e sarebbe molto interessante, aprire un dibattito sulle scelte dei film da distribuire da parte delle case di produzione e distribuzione di audiovisivi: esse sono sicuramente condizionate dalle leggi del mercato, se no non si spiegherebbe l'uscita di film come American Pie 12, 13, 14... o di altri “filmacci” del genere a discapito di pellicole sicuramente più valide ma con poco appeal sullo spettatore medio. Per quanto riguarda il cinema asiatico, mi vengono in mente subito due commedie mai uscite in Italia... diciamo da consigliarvi così su due piedi: I'm Cyborg, But That's Ok (Saibogujiman kwenchana, 2006) di Park Chan-Wook mitico regista della “trilogia della Vendetta” comprendente Sympathy for Mr. Vengeance (Boksuneun naui geot, 2002), Old Boy (Oldebuoi, 2003) e Lady Vendetta (Chinjeolhan geumjassi, 2005); l'altra pellicola andata misteriosamente perduta invece è My Sassy Girl (Yeopgijeogin geunyeo, 2001) di Jae-young Kwak... che non è cinema, ma è IL cinema.
Bungee Jumping of Their Own è stato il film d'esordio del regista coreano Kim Dae-sung, il quale fu, in precedenza, assistente alla regia del maestro Im Kwon Taek. Questa sua pellicola è stata definita da molti critici come il più raffinato mèlo del cinema coreano contemporaneo, questo per farvi capire che non si tratta proprio di un filmetto qualunque, il che rende ancora più assurdo il suo esilio forzato dal nostro, cinematograficamente parlando, ignorante paese.
Agosto 1983. In un piovoso pomeriggio In-woo, timido studente universitario, incontra alla fermata del bus la bellissima Tae-hee, studentessa d'arte. Tra di loro nasce ben presto un legame profondissimo, ostacolato però dall'incombente servizio militare che aspetta In-woo. Il film poi esegue un salto temporale in avanti di quasi vent'anni e nel 2000 ritroviamo In-woo sposato, con un altra donna, e professore in un rinomato liceo. Sarà proprio in questo liceo che In-woo si innamorerà di un suo studente diciassettenne, il quale a suo parere, altro non è che la reincarnazione di Tae-hee, il suo primo – e unico – grande amore.
Bungee Jumping of Their Own è una pellicola caratterizzata da una struttura bipolare. Dopo un inizio folgorante, che solo a visione conclusa si potrà comprendere appieno, con la telecamera che vola tra uno splendido paesaggio, la prima parte del film risulta essere una commedia romantica che ha per protagonisti due giovani studenti innamorati alle prese con i classici problemi del primo amore. Quello che mi ha colpito di questo segmento di film è la delicatezza con cui il regista tratta argomenti importanti come la prima volta: le difficoltà sono ben rappresentate dalla scena clou di questa prima parte in cui, In-woo e Tae-hee desiderosi di perdere la loro verginità insieme, si recano in uno squallido motel. Una volta giunti a destinazione, i due ragazzi se ne stanno tutta la notte uno da una parte della stanza e l’altra dalla parte opposta senza avere nessuno dei due il coraggio di fare il primo passo. La realizzazione di questo primo “spezzone” di film è di impianto molto classico e non spicca per originalità: vi sono le solite schermaglie iniziali, con la protagonista restia a concedersi all’amore dello spasimante; vi sono i soliti amici che spingono il protagonista verso la tanto agognata “prima volta” recando ad esso più danno che altro; e vi sono le solite situazioni ambigue e controverse che rischiano di incrinare il rapporto. Certo è innegabile che Kim Dae-sung ha un grandissimo talento e, proprio per questo, pur confrontandosi con un inizio di pellicola molto standardizzato, riesce ad elevarsi dalla media grazie a sequenze molto ben realizzate come quella del litigio sotto la pioggia. Ma Bungee Jumpinf of Their Own prende letteralmente il volo nella sua seconda parte facendo salire di livello una pellicola fino ad allora solo appena godibile. Primo tocco di genio del regista: stacco di quasi vent’anni – dal 1983 al 2000 – improvviso, inaspettato e senza una minima spiegazione. La seconda metà del film è un sublime dramma intimistico incentrato su un argomento che è ancora tabù in Corea del Sud, ovvero l’omosessualità: in tale paese questa tendenza sessuale è rinnegata almeno quanto da noi Berlusconi sconfessa il potere dei giudici. Infatti è molto difficile che si realizzano film su tale scottante argomento e dei pochi realizzati quello in questione è, forse, l’unico ad aver riscontrato successo e consensi. Tra l’altro pensate che in Corea del Sud vi è perfino un test per poter testare la virilità maschile e quindi provare la propria non omosessualità... lo stesso protagonista del film in questione si sottopone a tale test. Questo secondo tempo segue In-woo ormai adulto e la sua crescente passione per un suo studente, nel quale il protagonista vede la reincarnazione del suo primo grande amore. La pellicola di Kim Dae-sung cambia così totalmente regime tralasciando i toni leggeri e spensierati della prima parte e concentrandosi sulla lenta ed inesorabile devastazione della vita del protagonista che lo porterà a perdere prima il lavoro e poi la moglie, forse in realtà mai amata veramente. Pur accostandosi al tema dell’omosessualità, splendidamente messo in scena nella seconda parte, il vero scopo del regista è quello di realizzare una pellicola sull’amore eterno, il quale non può essere limitato da niente e da nessuno… l’amore vero, quello infinito, quello che prosegue anche oltre la morte. Detto così sembra molto banale, ma non lo è assolutamente, credetemi: Bungee Jumping of Their Own è una parabola sul destino, su quello che esso ci toglie e su quello che poi ci ridà. Il primo amore inizialmente rubato ad In-woo, adesso gli viene restituito, e poco importa sotto quale aspetto o forma. Tae-hee è – forse… – rinata nelle spoglie di Hyun-bin, un giovane studente diciassettenne, ma questo non sembra interessare al protagonista, il quale non riesce a resistere al richiamo del vero amore: “Se ti gettassi da un precipizio, dicevi che la tua vita non sarebbe finita lì. Ci incontreremo di nuovo, innamorandoci. Non sarà solo perché ti amo, ma perché l’unica cosa che posso fare è amarti, amarti per sempre”.
Il film di Kim Dae-sung è veramente una pellicola stranissima, che consiglio vivamente a tutti. Certo non è esente da pecche e qua e la c’è qualche piccolo tonfo nella sceneggiatura… però il regista riesce a tenere bene in mano la situazione equilibrando un lavoro formato praticamente da due metà che poco hanno in comune, infatti ad un primo spezzone scanzonato ne segue uno molto drammatico. A mio parere, questa seconda parte è nettamente superiore alla prima, anche perché quest’ultima, alla fine, sa troppo di già visto. Se dovessi trovare una pecca a tutti i costi, direi che gli amici del protagonista da studente sono troppo stereotipizzati: in pratica sono solo due, uno naturalmente pensa solo al sesso, l’altro invece è più saggio e prudente. Insomma, la solita solfa della coscienza divisa: se ci fate caso infatti in molti film – soprattutto commedie – le spalle (ovvero i co-protagonisti) del personaggio principale hanno sempre la personalità agli antipodi, da una parte si ha l’amico “diavoletto” che naturalmente consiglia sempre male e altrettanto naturalmente viene sempre ascoltato dal protagonista, se no non si potrebbe avere la classica crisi pre-conciliazione finale tra i due attori principali, mentre dall’altra si ha, invece, l’amico “angioletto”, quello che ovviamente non viene mai preso in considerazione. Nella seconda parte, mi ha molto convinto la rappresentazione della presunta omosessualità crescente del protagonista. Povia in una sua – pessima… – canzone cantava: “Luca era gay, ma adesso sta con lei…”, in Bungee Jumping of Their Own è vero invece il contrario: “In-woo stava con lei, ma adesso invece è gay…”, anche se questo è tecnicamente inesatto. In-woo non è omosessuale, egli è innamorato di Tae-hee che si è reincarnata in un ragazzo, e questo non è mica colpa sua… d’altra parte al vero amore non si comanda.
Per concludere, una nota di merito al finale della pellicola che mi ha molto colpito e affascinato. È vero che esso forse è un po’ forzato e, a ben vedere, anche un po’ scontato però raggiunge vette di poeticità e lirismo che ultimamente difficilmente mi è capitato di riscontrare in altri film. Se dovessi far un paragone lo affiancherei alla conclusione di Ferro 3 – la casa vuota (Bin Jin 3 - Iron, 2004) di Kim Ki-Duk… alt! Chi non ha visto questo film è pregato di smettere di leggere e di andare subito a noleggiarlo, pena fustigazione con cinghia di cuoio. Mi trovo d’accordo con Paolo Mereghetti che a proposito della fine di Ferro 3 – la casa vuota ha scritto: “il finale sarebbe piaciuto ai surrealisti”. Verissimo, ne approfitto per utilizzare questa citazione per il film in questione, anche questo finale sarebbe piaciuto molto ai surrealisti… il motivo?! Lo stesso che ci dà sempre il buon Mereghetti nel suo dizionario riferendosi alla pellicola di Kim Ki-Duk: l’elogio dell’amore più forte di tutto, persino della logica, Conclusione: è l’amore, non la ragione, che è più forte della morte (Thomas Mann).

martedì 15 dicembre 2009

LUPIN III – LA STRATEGIA PSICOCINETICA (Rupan Sensei – Nenriki Chin Sakusen, 1974) di Takashi Tsuboshima

Una questione che mi ha sempre appassionato e che non sono ancora riuscito a comprendere appieno, nonostante un mio più che propositivo impegno per risolvere questo intricatissimo mistero, è quella del fattore “trash” nel cinema... cos'è veramente il trash? Esso potrebbe essere uno dei più grandi quesiti irrisolti della storia dell'umanità... scherzo ovviamente! Trash deriva dall'inglese e significa “spazzatura”: “il termine è entrato nell'uso anche in italiano per riferirsi a espressioni artistiche o forme di intrattenimento di basso profilo culturale”. E un film trash cosa è esattamente? Altra domanda di difficile risposta... teniamo per buona questa affermazione: “Diciamo che trash sono quei film girati con scarsi mezzi (ma possono essere trash anche film più ricchi!), con attori indecenti e trame spesse volte risibili che, in genere, mescolano alla rinfusa più sottogeneri, come ghost story, splatter, erotico etc... La maggior parte di questi film cade nel ridicolo involontario”.
Il film in questione, ovvero Lupin III – la strategia psicocinetica (Rupan Sensei – Nenriki Chin Sakusen, 1974), versione live con attori in carne ed ossa del famosissimo anime giapponese, è – a mio avviso – un trash... anzi direi che è trashissimo. Analizziamolo in base all'affermazione di trash precedente: scarsi mezzi? Direi proprio di si; attori indecenti? Si, effettivamente non sono proprio da premio Oscar; trame spesso risibili? Si al 100%... soprattutto a questo; quello che manca effettivamente è la mescolanza di sottogenere alla rinfusa. Beh, tre su quattro non male...
La trama del film di Tajashi Tsuboshima è veramente ai minimi storici in ogni sua componente: essa è solo un pretesto per sfruttare un personaggio molto in voga soprattutto in Giappone ma anche in tutto il resto del mondo, la cui fama, a distanza di più di trent'anni non intende diminuire. Lupin III è un giovane scapestrato che passa le sue giornate alla meno peggio, vivendo di espedienti e alla giornata. Almeno fino a quando non incontra la bellissima Fujiko Mine, e Daisuke Jigen non riesce finalmente a rintracciarlo dopo anni di inutili ricerche: egli lo stava cercando in quanto unico discendente del famoso ladro francese Arsinio Lupin che ai suoi tempi era stato a capo di un vasto e potente impero del crimine. Il compito di Jigen sarebbe quello di convincere Lupin III a ricostruire il grande impero criminale che prima era stato di suo nonno e poi di suo padre. Sulle tracce del giovane scavezzacollo ci sono anche l'immancabile ispettore Koichi Zenigata e una potente organizzazione mafiosa preoccupata dalla possibilità che egli possa veramente rifondare l'impero di famiglia.
Tagliamo la testa al toro... questo film è una “boiata” di dimensioni colossali però qualche sorriso lo strappa e sicuramente ha il pregio di non prendersi sul serio e di durare poco – 83 minuti circa – quindi terminare prima di stancare lo spettatore. Come dicevo in precedenza la trama non esiste, la pellicola è un insieme di situazioni comiche “no sense” che faranno la gioia degli amanti della commedia anni settanta nostrana: toglieteci il fattore pecoreccio, qui praticamente assente, e vi assicuro che vi sembrerà di essere davanti ad una delle tante commedie con protagonisti i vari Lino Banfi, Alvaro Vitale, Renzo Montagnani e così via. Eccovi alcuni esempi chiarificatori: Lupin cerca di baciare Fujiko che è imprigionata in una camionetta della polizia, ma alla fine bacia la guardia; Lupin cerca di baciare Fujiko – ancora... – ma lei gli fa cadere in testa un ramo d'albero; Zenigata per sfogarsi prende la testa del suo sottoufficiale e la sbatte sul tavolo, dopo due volte quest'ultimo si sposta e mette al suo posto l'altro sottoufficiale di Zenigata che dopo aver sbattuto la testa contro il tavolo rimbalza colpendo in pieno il suo collega che si era defilato; Zenigata da un calcio nel sedere sempre al solito sottoposto che però ha nascosto sotto i pantaloni un vassoio d'acciaio... allora l'ispettore ancora più incavolato gli molla un calcione negli “zebedei” ma quest'ultimo li ha protetti con un pentolino sempre d'acciaio.; la lista potrebbe essere molto più lunga, ma mi fermo qua. Adesso ditemi, onestamente, che dopo questa serie di esempi non siete convinti di trovarvi di fronte ad una commedia anni settanta “made in Italy”? Ma non è così... siete al cospetto di un film giapponese del 1974... incredibile, eh? Mi piacerebbe sapere se il regista conoscesse la nostra commedia o se si tratta solo di un caso di somiglianza involontaria... boh. Una cosa è certa però: Takashi Tsuboshima conosce benissimo la “slapstick comedy” e in Lupin III – la strategia psicocinetica ne fa gran uso. “Slapstick” è un termine cinematografico statunitense che sta ad indicare un tipo di comicità, basata sul linguaggio del corpo, nata con il cinema muto. Nascendo nei primi anni del cinema, la “slapstick comedy” ha una forma narrativa molto semplice che fa leva sulla ripetizione di alcuni luoghi comuni e gag topiche: la torta in faccia, la scivolata sulla buccia di banana, la caccia all'uomo (le comiche d'inseguimento con i personaggi che escono ed entrano da un lato o dall'altro della scena con capriole e prove acrobatiche di qualunque tipo), la panchina pitturata di fresco, l'irriverenza verso i poliziotti. Lo “slapstick” è estremamente utilizzato nei cartoni animati: esempi celebri sono Tom & Jerry e Willy il coyote. In questi cartoni, la violenza è rappresentata in maniera esagerata, assurda e, di conseguenza, comica, per stimolare la risata dello spettatore. Ma torniamo al film in questione. Due situazioni in particolare possono essere ricollegate alla “slapstick comedy”: la prima vede Lupin inseguito da una schiera di poliziotti a loro volta inseguiti da Jigen. Durante questo inseguimento i personaggi escono ed entrano a piacimento nell'inquadratura cinematografica. Altra situazione tipica da “slapstick” è che in tale sequenza, gli inseguitori e gli inseguiti cambiano di volta in volta... fino al finale, summa del paradosso, con Lupin che si mette a bivaccare al centro della scena e gli altri che continuano a rincorrersi senza accorgersi che lui è fermo lì nel centro. La seconda situazione vede, invece, Lupin che viene fatto vittima di un “montone” da parte dei i poliziotti, ma egli riesce a sgattaiolare via senza che nessuno se ne renda conto. Alla fine quando i poliziotti, finalmente, se ne accorgono e rincominciano ad inseguirlo, scopriamo Zenigata, ammanettato a posto del furfante. Ecco, la pellicola è una serie di gag, più o meno tutte di questo tipo, senza un nesso logico, quindi direi che l'apprezzare questa trasposizione in carne e ossa del celebre cartone animato passi soprattutto da qua: da quanto piacciono queste situazioni comiche e surreali. In fondo al regista non penso proprio interessasse altro... in certe scene vediamo Lupin III correre ad una velocità supersonica... secondo voi Takashi Tsuboshima si è preoccupato minimamente di spiegarci il perché? Assolutamente no!
Un argomento di discussione interessante da sottolineare è la coerenza, o meglio l'incoerenza, di questa pellicola se la confrontiamo con il cartone animato da cui è tratta... e qui, ahimè, casca l'asino! Lupin III – la strategia psicocinetica centra con il suo contraltare animato come il cavolo a merenda. Il protagonista, oltre ad avere un improponibile ciuffo, non sembra neanche lontano parente dell'originale ideato da Monkey Punch: vestito di bianco, capello abbastanza lungo, foulard al collo... per fortuna che la sua passione per le donne – soprattutto Fujiko – è rimasta inalterata perché a me il primo commento che è venuto in mente, dopo averlo visto così “conciato”, è che sembra proprio un “fricchiettone”. Jigen è sempre un abile pistolero, ma non ha la stessa verve che ha nel cartone... qui sembra una semplice comparsa senza una parte importante... alla fine risulta un po' anonimo. L'ispettore Zenigata è incredibilmente ancora più imbecille di quanto lo sia nel cartone animato. Il che non so se è un bene o un male. A Fujiko manca il fisico prorompente che ha nei cartoni, però caratterialmente è quella che assomiglia di più all'originale. Ma quello che manca veramente è l'atmosfera... la scanzoneria dell'originale viene sostituita da una serie di situazioni da farsa, alcune – non molte in verità – anche divertenti, ma che non possono essere minimamente paragonate a quelle che si vivevano nel cartone animato. L'unica scena che sembra essere presa direttamente dall'anime è la scena della rapina dei gioielli, i quali vengono aspirati da un tubo aspiratutto.
Un film strano, particolare... lo consiglio giusto per il suo valore trash... il quale è veramente alle stelle! Però alla fine si tratta solo di un filmetto così, da vedere con “noschalans”, niente di memorabile... e il cartone è sicuramente un'altra cosa. Secondo me, comunque, l'eventuale apprezzamento o no di questa pellicola dipende molto da con che spirito si guarda: bisogna veramente scollegare il cervello per tutti gli ottanta minuti, però io sinceramente mi aspettavo qualcosa di meglio. Conclusione: di Lupin al mondo uno ce n'è.

martedì 8 dicembre 2009

VIVE LA FRANCE!

“Vive la France!”.
Io, cinematograficamente parlando, ho sempre amato la Francia, ma ultimamente la amo ancora di più... e volete sapere perché?! Per tre horror movie che ho visto di recente – anche se la lista potrebbe essere più lunga –, i quali mi hanno letteralmente deliziato per la cattiveria che si portano dietro: tre pugni nello stomaco difficilmente dimenticabili... e già questo, per una pellicola horror, si può definire un bicchiere mezzo pieno. Ecco a voi il magico trittico, in ordine rigorosamente alfabetico: À l'Interieur (Id., 2007) di Alexandre Baustillo e Julien Maury, Frontiers – Ai confini dell'inferno (Frontiers, 2007) di Xavier Gens, ed infine Martyrs (Id., 2008) di Pascal Laugier.
Diamo via alle danze, riassumendo brevemente le trame dei sopracitati film: A l'Interieur, una giovane donna incinta, Sarah, è in casa da sola, quando, a tarda serata, una signora le si presenta alla porta intimandole di farla entrare. Per Sarah sarà l'inizio di un incubo assurdo, infatti l'obiettivo della sconosciuta altro non è che “strapparle”, con ogni metodo possibile, il pargolo che ha in grembo; Frontiers – ai confini dell'inferno, durante alcuni scontri in seguito ad una manifestazione politica contro l’eventuale salita al potere della destra estrema, un gruppo di ragazzi approfitta della caos per sfuggire alla polizia dopo una rapina. Il gruppo ha intenzione di raggiungere l’Olanda oltrepassando la frontiera francese. Essendo ormai notte inoltrata, i ragazzi decidono di fermarsi in un motel sperduto nei pressi del confine con il Belgio. Mai decisione fu più sbagliata... infatti esso è gestito da una famiglia di psicopatici, capeggiati da un folle patriarca nazista; Martyrs, Lucie, scomparsa da un anno, viene ritrovata mentre cammina lungo una strada, in stato catatonico, confusa e senza memoria di quello che le è capitato. La polizia scopre il luogo dove la giovane è stata rinchiusa: un vecchio mattatoio abbandonato. Altro fatto strano, Lucie non porta alcun segno di abuso sessuale o di violenza. Quindici anni dopo, ritroviamo Lucie con un fucile in mano pronta a far fuoco su una, almeno apparentemente, famiglia qualsiasi.
Prima di parlare – brevemente – di ognuno dei tre film, vorrei fare un discorso generale sul periodo veramente d'oro che sta attraversando il cinema horror d'oltralpe, soprattutto se paragonato all'immobilismo del nostro paese. Con fare un po' provocatorio ho spesso definito questo “magic moment” francese come una nuova Nouvelle Vague... immagino che qui si alzeranno boati di sdegno (forse anche in parte giustificati), ma sta di fatto che i più recenti horror francesi sono ciò che di meglio si possa sperare in tale campo: le storie sono, quasi sempre, non troppo convenzionali e già questo, per un genere atrofizzato come quello dell'orrore, non è poco, se poi a questo si aggiunge tanta... ma proprio tanta... cattiveria – oltre ad ettolitri di liquido rosso che non guastano mai – si capisce perché i fans di tale genere abbiano spostato maggiormente la loro attenzione sul cinema che nasce sotto la torre Eiffel. Il paragone con la Nouvelle Vague “originale”, a mio avviso, facendo ovviamente le determinate proporzioni, ci può stare per due diversi motivi: in primis, perché come i vari Jean-Luc Godard, Francois Truffaut, anche questi registi sono alle prime armi ed hanno a disposizione capitali veramente limitati, a cui sopperiscono con una buona dose d'ingegno; secondo, perché – questa è una mia personalissima opinione – questi film francesi saranno, nel più ristretto campo del cinema orrorifico, quello che i film della Nouvelle Vague furono, ai loro tempi, per tutta la cinematografia mondiale, in quanto essi getteranno le basi di un cambiamento generazionale per quanto riguarda gli “horror movie”: è innegabile che chiunque si confronterà con il genere in questione dovrà per forza “scontrarsi” con un film come Martyrs che segna il nuovo limite del rappresentabile. Infatti il film di Pascal Leugier, in quanto a violenza e cattiveria, fa sbiadire i vari Saw ed Hostel. Sinceramente questo osare di più, è favorito anche da un motivo prettamente burocratico, il quale è di rilevante importanza: in Francia non ci sono i limiti imposti dalla MPAA americana. È inutile cercare di negarlo comunque, l'horror del XXI secolo parla francese ed è un bene che sia così... punto e a capo.
Partiamo dal film meno riuscito che comunque, a mio parere, è lo stesso più o meno sufficiente: Frontiers – ai confini dell'inferno. Per farvi capire la portata eversiva di questo lavoro di Xavier Gens vi riporto due commenti estrapolati dal suo trailer in italiano: “Non so quale paese avrà il coraggio di farlo uscire in versione integrale” e “Questa volta si è andati veramente troppo oltre”. Semplice trovata pubblicitaria? Molto probabile, infatti con me ha funzionato... l'ho comprato senza sapere cosa fosse, e alla fine non me ne sono neanche dovuto pentire troppo. Soprattutto perché il film è veramente sporco, cattivo, eccessivo ed iperviolento, anche se tra i tre è quello che sarà meno indigesto ad uno spettatore navigato. Il problema principale della pellicola è che sa troppo di già visto: metteteci una famiglia di psicopatici direttamente discendente da quella di Leatherface nel cult Non aprite quella porta (The Texas Chainsaw Massacre, 1974) di Tobe Hooper, aggiungeteci poi una buona dose di violenza nell'ormai classico “Hostel style” – torture varie in pratica... –, un pizzico de La casa del diavolo (The Devil's Rejects, 2005) di Rob Zombie, tra l'altro una delle protagoniste – Estella Lefébure – sembra la copia perfetta di Sheril Moon nel film del regista americano, e infarinate il tutto con tanta emoglobina rossa ed ecco che avrete il vostro Frontiers pronto all'uso. Insomma niente di che, una pellicola che fa del “citazionismo estremo” il suo punto di partenza ma anche di arrivo non riuscendo perciò, in fin dei conti, a fare il salto di qualità: forse dal punto di vista prettamente cinematografico, una mezza occasione persa che risolleva in parte le sue sorti grazie ad una cattiveria intrinseca non per tutti gli stomaci. Giusto il V.M. 18.
Ecco ora una delle due note lietissime: A l'interieur. È stato veramente difficile per me scegliere quale tra questo film e Martyrs ho apprezzato di più... alla fine ho deciso, a malincuore, che la pellicola di Pascal Laugier mi è piaciuta un pizzico in più... ma non preoccupatevi perché siamo veramente a livelli eccelsi in entrambi i casi. La trama del film della coppia Baustillo/Maury è veramente molto semplice, quasi banale: nessun colpo di scena che possa spiazzare lo spettatore nell'arco degli ottanta minuti scarsi... la storia fila via liscia fino al suo epilogo... mi verrebbe da dire liscia come bere un bicchiere d'acqua... il problema è che nel bicchiere non c'è acqua... ma dell'acido!!! Perché è questa la sensazione che ho avuto a vedere A l'interieur... alla fine della proiezione, mi sembrava di avere lo stomaco sottosopra... che incantevole sensazione. Esso è di gran lunga uno degli horror più violenti che mi è capitato di vedere negli ultimi tempi, una vera carneficina condita da alcune scene altamente disturbanti: Baustillo e Maury superano volontariamente il limite del consentito puntando direttamente all'oltraggioso. Niente da dire, un film – da vedere assolutamente... – che ha fatto tanto discutere e continuerà a farlo: ma tanto a noi il problema non tocca, visto che per ora di poterlo avere nel nostro “bigotto” paese non se ne parla proprio. Forse è meglio così... perché sono convinto che una sua eventuale distribuzione italiana scatenerebbe almeno due o tre “family day”. Il tema principale della pellicola è un tema che oramai sembra molto caro al cinema di genere francese: l'intrusione ingiustificata di estranei all'interno delle nostre mura domestiche... ovviamente con intenti tutt'altro che cordiali. Altro horror d'oltralpe molto simile, almeno come incipit iniziale, e vivamente consigliato è Them (Ils, 2006) di un'altra coppia di giovani registi: David Moreau e Xavier Palud in seguito emigrati negli Stati Uniti per dirigere il mediocre remake dell'altrettanto mediocre j-horror The Eye (Gin gwai, 2002) diretto dai fratelli Oxide e Danny Pang. Io credo che in questa paura si rispecchi soprattutto una situazione sociale non propriamente idilliaca, infatti due dei tre film in questione sono ambientati durante violente rappresaglie che stanno mettendo in ginocchio una città intera. È impossibile qui non fare un paragone con i grandi horror americani degli anni settanta come il già citato Non aprite quella porta, dove vi è un'America che non si è ancora ripresa dalle conseguenze catastrofiche di una guerra, quella del Vietnam, che sembra aver portato alla deriva un'intera società. Il merito principale del duo francese è quello di sviluppare il tema dell'intrusione su due livelli differenti: il titolo stesso del film chiarisce gli intenti “malsani” dei due registi: "A' l'interieur". All'interno. E questo interno è sia l'appartamento dove Sarah, illusoriamente, si sente in tutta sicurezza, mentre fuori infuriano le rivolte parigine, sia il ventre materno, che dona un altrettanto chimerica protezione al suo bambino. E quando vediamo le reazioni del feto che imita i movimenti della madre, e alza le braccia per proteggersi dai colpi che Sarah subisce, ci rendiamo conto di avere a che fare con qualcosa di veramente “nasty”, che infrange tutti i tabù possibili ed immaginabili. Consiglio spassionato: le donne in dolce attesa si astengano dalla visione.
And the winner is... Martyrs. Ecco a voi il film più agghiacciante degli ultimi anni. Prima di iniziare questo mio nuovo post per il mio blog mi sono auto-imposto che per quanto riguardava il film di Pascal Laugier non avrei fatto nessun accenno alla trama, questo per non rovinare la visione a nessuno... mai come in questo caso questa limitazione è necessaria, fidatevi! Molta gente, sul web, riferendosi al film di Pascal Leugier ha parlato impropriamente di “torture-porn”, io credo che questo accostamento sia una cantonata indicibile: Hostel (Id., 2005) – ma anche i vari capitoli della saga dell'enigmista, escludendo forse il primo – con la sua violenza grottesca, esasperata ed esibizionistica è un “torture-porn”, in quanto esso sembra non avere altro scopo se non quello di disgustare lo spettatore, voyeur (in)consapevole del gioco ad hoc costruito dal regista Eli Roth. Dimenticate il divertissement Rothiano, qua siamo su un altro livello... Martyrs è un horror completamente unico nel suo genere, un condensato di tensione che non si allenta per tutti i novanta minuti di visione: solo A l'interieur ha, secondo me, la stessa carica eversiva intrinseca che non lascia un attimo di respiro. La pellicola di Pascal Leugier attinge a mani basse da tutto il cinema di genere mondiale, ma non si tratta di una semplice citazionismo estremo come nel caso di Frontiers, qui tutto ha un suo perché. Ed così che si passa dal j-horror asiatico fatto di donne rantolanti – The Grudge (Ju-on, 2000) di Takashi Shimizu non vi dice niente? – allo splatter made in USA, passando attraverso il thriller nostrano anni settanta – non a caso Martyrs è dedicato a Dario Argento – e l'horror domestico francofono sulla falsa riga di A l'interieur... il tutto però condito con elementi filosofici/metafisici. In questo mix – letale... – la bravura del regista è stata quella di saper comunque amalgamare ispirazioni varie, evitando la sensazione di assistere ad un miscuglio “no sense” di situazioni tipiche messe lì solo per confondere lo spettatore. Un film disturbante, violentissimo, (s)gradevolmente amaro per alcuni ed indigesto per molti altri... un film che, come vi dicevo in precedenza, va oltre il concetto di “torture porn”, perché ricco di spunti di riflessione agghiaccianti: per esempio... la vendetta può essere, a volte, giustificata?! Oppure... cos'è realmente un martire?! O ancora... fin che punto è giusto spingersi per soddisfare il nostro arrogante desiderio di conoscenza?! Purtroppo non volendo svelare niente della trama mi è impossibile spingermi oltre nelle considerazioni: spero vivamente di avervi incuriosito a tal punto da voler recuperare il film. Ennesimo consiglio. Cito testualmente una sovrascritta presente sulla locandina italiana del film: “Questo film mostra immagini estremamente violente e difficili da sopportare, la visione e la comprensione richiedono spettatori preparati”.
Che dirvi di più?! Benvenuti nel nuovo regno del terrore. Ah, ne approfitto per consigliarvi un altro “horror cult” francese, ovvero Alta tensione (Haute tension, 2003) di Alexandre Aja in cui vi è una scena di sesso orale con una testa mozzata... funny! Conclusione: Vivre est une maladie, la mort est le remède.

martedì 1 dicembre 2009

L'ALBERO DELLA VITA (The Fountain, 2006) di Darren Aronofsky

Darren Aronofsky è un regista newyorkese autore di quattro film in dieci anni: i suoi primi due lavori registici sono pellicole strane, particolarissime e di difficile decifrazione, che volenti o nolenti lasciano, quasi sempre, nello spettatore due sentimenti contrastanti: da una parte, a mio avviso, non si può che rimanere affascinati da film come Pigreco – il teorema del delirio (Π, 1997) e Requiem for a Dream (Id., 2000), ma dall'altra è innegabile che la visione di tali opere lasci basito, e con un senso di forte frustrazione, il pubblico. Anche la pellicola qui in esame, L'albero della vita (The Fountain, 2006), produce gli stessi effetti... anche se essa è molto meno riuscita delle due prima citate. Davvero un film indecifrabile – ed indefinito... – questo terzo lavoro del regista: un progetto che egli aveva in cantiere da parecchi anni, ma che non è mai riuscito a realizzare per i molti dubbi – giustificati per una volta – espressi dai vari produttori per quanto riguardava il tornaconto remunerativo; sicuramente è un prodotto di difficile appeal su un pubblico medio, e quindi... flop assicurato, ovviamente. Ho tralasciato volontariamente fuori dal discorso The Wrestler (Id., 2008), la sua ultima fatica, che segna una svolta più commerciale – e commerciabile – dell'autore nato nella grande mela.
Se dovessi paragonare L'albero della vita ad un precedente film di Aronofsky, sicuramente lo avvicinerei al suo primo lavoro registico... cosa hanno in comune? Delirio allo stato puro: tanto era “matematicamente” delirante Pigreco – il teorema del delirio tanto è altrettanto “misticamente” delirante questa sua pellicola del 2006. Cavolo, è talmente complicato – o forse sarebbe meglio dire sconclusionato – che faccio fatica a scrivere persino la trama. Allora, il film è diviso in tre tronconi distinti – ma forse no... – dal periodo dell'ambientazione: XVI secolo, un conquistatore spagnolo si mette sulle tracce dell'Albero della vita in grado di donare l'immortalità; XXI secolo, un ricercatore scopre un siero, ricavato da una pianta guatemalteca, in grado di guarire un babbuino malato di tumore; XXVI secolo, un astronauta/monaco buddista – o qualcosa del genere... – vola, dentro una bolla, con un morente albero verso la galassia, o meglio verso lo Xibalba. Xibalba... what? Stando al film esso è in realtà una stella morente, che veniva indicata – o paragonata – dai Maya come il loro oltretomba dove le anime dei morti rinascevano. Ci avete capito qualcosa? No? Nemmeno io. Occhei, diamo via alle danze...
Nella breve introduzione al film parlavo di tre spezzoni distinti, ma è veramente così? No, i tre mondi, o meglio livelli temporali, creati dal regista non sono affatto separati: essi si incastrano, si scontrano, si scambiano e si completano... insomma, un'unica storia che dura secoli: nel XVI secolo, un soldato spagnolo, Tomas Creo, cerca l'Albero della vita per salvare la nobildonna Isabel; nel XXI un biologo, Tommy Creo, cerca disperatamente di salvare sua moglie malata terminale di cancro; nel XXVI un astronauta, Tom, ma potrebbe essere anche un monaco o un mago, cerca di salvare un albero morente, trasportandolo nella più profonda galassia. È la versione futuristica a rivivere la sua vita come il ricercatore Tommy, ma è anche quest'ultimo a rivivere a sua volta, attraverso il libro scritto dalla moglie, la vita del conquistador Tomas nel XVI secolo... chiaro no? Come no. I due protagonisti sono interpretati, nelle tre epoche differenti, entrambi dallo stesso attore, rispettivamente Hugh Jackman e Rachel Weisz, e questo ci fa già capire qualcosa: altro non è che la storia di un uomo, prima conquistatore spagnolo, poi scienziato ed infine astronauta, che attraversa il tempo per salvare la donna che ama, prima regina, poi scrittrice ed infine incarnatasi in Albero della vita. Ma è veramente così? Difficile a dirlo... onirico come quasi nessun altro film da me visto, L'albero della vita è un calderone impazzito in cui Aronofsky butta dentro di tutto di più: la vita, la morte, l'amore, la ricerca dell'immortalità, le credenze Maya, la Bibbia, il buddismo, la scienza, la terra, il cielo, l'universo intero... il lavoro del regista newyorkese è presuntuoso, pretenzioso e pretestuoso, gioca con lo spettatore, come fa il gatto con il topo, facendoli credere di trovarsi di fronte a chissà che cosa... per poi esplodere come una bolla di sapone... troppa carne sul fuoco e per di più cucinata male. Proviamo ad analizzare ogni lasso temporale: il principale è sicuramente quello del XXI secolo con il ricercatore che cerca disperatamente una cura per il cancro della moglie. Qua abbiamo sicuramente due visioni differenti della morte: Tommy Creo non riesce ad accettare il cancro della moglie, mentre essa sembra aver trovato la pace dell'anima. Tommy rifiuta l'idea di perdere una persona amata ed è per questo che spera di trovare il suo “Albero della vita” sotto forma di un siero, tra l'altro estrapolato dalla corteccia di un albero del Guatemala che potrebbe essere definito perciò come un novello Albero della vita, in grado di curare un male “incurabile”. La scienza viene vista come l'unica soluzione al male ultimo dell'uomo, ovvero la morte: l'uomo vuole superare i limiti imposti da Dio – o da qualsiasi altra divinità... – e crearsi da solo il proprio Albero della vita, in grado si sconfiggere l'effimerità di quest'ultima. Per quanto riguarda la posizione intrapresa da Izzie, la moglie, bisogna forse ricollegarsi ancora una volta allo Xibalba: essa sa accettare la propria morte in quanto la vede come rinascita, perché da qualcosa di morente rinasce sempre dell'altro. La vita e la morte sono aspetti naturali che andrebbero vissuti in maniera naturale, secondo le leggi della natura. E nella natura la morte, in realtà, non esiste se non come forma di passaggio. La morte è l'anticamera di una nuova vita. Tutto è trasformazione. Vita e morte fanno parte di un immane processo di trasformazione, di cui noi non vediamo né l'inizio né la fine. Secondo lasso temporale, quello del XVI secolo: il conquistatore spagnolo Tomas Creo è alla ricerca dell'Albero della vita per poter così salvare la sua amata, la regina Isabel, la quale è sotto assedio da parte del Grande Inquisitore spagnolo. Ella è considerata un'eretica in quanto convinta della possibilità della vita eterna, scardinando così tutti i credi cristiani. In questo secondo spezzone abbiamo una visione cabalistica - da Cabalà, ovvero la sapienza mistica spirituale contenuta nella bibbia ebraica –dell'Albero della vita: quest'ultimo in principio era presente nell'Eden insieme all'Albero della conoscenza del bene e del male, quello da cui Adamo ed Eva mangiarono il frutto proibito. Dopo il peccato, l'Albero della vita fu nascosto, per impedire che Adamo, con il male che aveva ormai assorbito, avesse accesso al segreto della vita eterna e, così facendo, rendesse assoluto il principio del male. Dopo aver perso lo stato paradisiaco del Giardino dell'Eden, l'umanità non ha più accesso diretto all'Albero della vita, che rimane l'unica vera risposta ai bisogni d’infinità, di gioia e d’eternità che ci portiamo dentro. Ed è da quel momento che l'uomo è alla continua ricerca di tale albero per poter scoprire il segreto della vita eterna. Il mito di Adamo ed Eva può essere collegato benissimo anche alla vicenda di Tommy ed Izzie, trattata in precedenza: come non riscontrare nel primo un novello Adamo? Cacciato dalla condizione di pace eterna del paradiso terrestre – dalla malattia della moglie –, egli cercherà in ogni modo di ritrovarla: Aronofsky ha esemplificato nella lotta di un biologo per salvare l'amata moglie dal tumore al cervello il vagheggiamento, ricorrente in ogni tempo – e qui ci ricolleghiamo al XVI secolo –, di un'arma per sconfiggere i limiti imposti all'uomo dalla caduta dal paradiso. Arriviamo ora al terzo e ultimo segmento di film, ambientato nel XXVI secolo... esso è veramente, a mio avviso, delirante. Tom, un “santone” - non so più come definirlo tanto è indefinito... - sta viaggiando, dentro una bolla d'aria, verso la galassia con un albero morente. A questo punto pongo delle congetture: allora l'albero morente è l'Albero della vita ed è la rappresentazione “naturalis” di Izzie. Tom sta volando verso una stella morente – deduco lo Xibalba – per cercare di far sopravvivere l'albero e cercare così di donare nuova vita a sua moglie, o semplicemente ricongiungersi con essa nei cieli. Questo ultimo segmento profuma tanto di buddismo... e onestamente mancava proprio solo questo nella pellicola di Darren Aronofsky: il calvissimo Hugh Jackman non può che far pensare ad un monaco buddista intento nella sua contemplazione e in fine preda di una trasfigurazione che lo riporta indietro nel tempo, nel XVI secolo in terra Maya, dove tutto ebbe inizio... ma anche no! Esso è veramente un finale terribilmente New Age... da far accapponare la pelle.
Spiegazione – ??? – finale... e viaz! Allora il tema principale de L'albero della vita dovrebbe essere la serena accettazione della morte. La “colpa” del protagonista – in tutte le tre epoche... - è quella di non saper accettare la futura morte della persona amata: nel passato (XVI secolo) Tomas sa benissimo che se non troverà l'Albero della vita condannerà a morte la regina Isabel e lo stesso si ripete nel presente (XXI secolo) con Tommy che cerca disperatamente una cura per guarire il cancro della moglie. Mentre nel futuro (XXVI secolo) egli cercherà in tutti i modi di salvare l'Albero della vita verso cui egli ha trasferito tutto l'amore che provava per la sua compagna: finché esso sarà in vita, Tom si potrà ricordare di Izzy. Ultima annotazione di vitale importanza però... come vi ho detto in precedenza, le vicende del XVI secolo sono attinte da un libro scritto da Izzie: tale libro resta però incompiuto e la moglie dice a Tom di completarlo lui, invitandolo in tal modo a giungere alle conclusione a cui essa è già arrivata e che lo porteranno ad una serena accettazione della morte. Dopo la morte di Izzie il marito si troverà a vagare nello spazio (XXVI secolo): durante questo tragitto Tom avrà continue apparizioni della moglie intenta a ricordargli di finire il libro, apparizioni a cui egli reagirà con forza... intimando ad Izzie anche di andarsene e di non farsi più vedere. Questo perché il protagonista è internamente combattuto se continuare la sua lotta personale, tentando di salvare l'albero e quindi mantenere in vita l'ossessione della moglie, o seguire la strada indicatagli da quest'ultima. Quando si è quasi in prossimità dello Xibalba Tom si rende conto di non poter più tenere in vita l'albero e capisce finalmente che solo morendo potrà rinascere a nuova vita, proprio come la stella nebulosa di cui gli aveva parlato Izzie. Sarà veramente così? La mano sul fuoco io non ce la metto...
Pellicola, come dicevo nell'introduzione, nata male e finita peggio. Le traversie in fase di gestazione devono aver influito in modo sostanziale sulla mala riuscita del film: esso era in preparazione dal 1999, sembrava che dovesse essere interpretato da Brad Pitt e Cate Blanchett e, soprattutto, che dovesse avere un budget sostanzioso – sopra i 70 milioni di $ - ma alla fine non se ne fece nulla... troppi dubbi su un soggetto così complesso e poco vendibile. Quando finalmente la situazione si bloccò il cash era stato praticamente più che dimezzato e si passò ai meno rischiosi 30 milioni di $: troppo pochi per un progetto di tale portata. Poi Darren Aronofsky, in versione novello Icaro, ci ha messo del suo puntando troppo in alto e creando alla fine un pasticciaccio di proporzioni bibliche. Conclusione: chi gioca con il fuoco...

martedì 24 novembre 2009

BLACK DAHLIA (The Black Dahlia, 2006) di Brian De Palma

Circa un mese fa stavo leggendo “La faccia nascosta della luna” il nuovo romanzo di Carlo Lucarelli in cui l'autore traccia “una mappa per orientarsi nella leggenda nera che accompagna la vita, e la morte, di tante star della musica e del cinema”. In questo libro vi sono resoconti dettagliati di tutti i casi più misteriosi accaduti nel mondo dello spettacolo: la morte di Kurt Cobain, quelle alquanto strane di Marylin Monroe e di Jim Morrison, quella di Brandon Lee avvenuta sul set de Il corvo (The Crow, 1994), quella più recente di Heath Ledger e tantissime altre che non sto qui ad elencarvi. Tra tutte queste – più o meno famose – morti misteriose ce n'è una che mi ha profondamente colpito, di cui avevo già sentito parlare, ma della quale non conoscevo i cruenti particolari: l'efferato omicidio di Elisabeth Ann Short, la quale sarà ricordata da tutti come “Black Dahlia”. Cosa mi ha colpito di questa storia? Prima di tutto l'efferatezza del delitto di cui è stata vittima la Dalia Nera: il corpo è stato ritrovato troncato in due parti, la ragazza è stata picchiata con ferocia ed era piena di lividi, le budella sono state estratte completamente, due tagli profondi allargavano la bocca fin sotto le orecchie, e per finire essa è stata sodomizzata dopo la morte. L'altro motivo di interesse era dato dal fatto che nel 1987, da questo fatto di cronaca, James Ellroy aveva tratto un romanzo intitolato “Black Dahlia” appunto. James Ellroy è l'autore di un libro, “L.A. Confidential”, da cui Curtis Hanson ha ripreso la sua omonima pellicola con Russel Crowe e Kevin Spacey. L.A. Confidential (Id., 1997) è uno dei miei film noir preferiti e quindi il passo successivo è stato semplice: mi sono procurato il libro e me lo sono divorato in pochissimi giorni. Essendo, come ormai avrete capito, un appassionato di cinema, il passo seguente è stato ancora più semplice, anzi direi istintivo: mi sono procurato il film che Brian De Palma aveva tratto dal libro nel 2006. Il problema è che se apprezzi, in maniera particolare, il libro – come ho fatto io in questo caso – stai pur certo che rimarrai deluso dalla sua trasposizione cinematografica. Purtroppo questa è quasi una legge non scritta.
Brian De Palma è stato per anni uno dei miei registi preferiti. A farmi “innamorare” di questo autore americano sono stati soprattutto tre suoi “gangster movie” i quali a mio avviso sono la summa del genere negli ultimi trent'anni: Scarface (Id., 1983), Gli intoccabili (The Untouchables, 1987) e Carlito's way (Id., 1993). Nonostante queste tre “perle”, far coincidere la carriera di questo eclettico regista ad un solo determinato genere sarebbe sbagliato, perché Brian De Palma ha dimostrato, sin dai suoi esordi, di sapersi muovere con abilità in tutti i generi cinematografici: dall'horror con Carrie, lo sguardo di satana (Carrie, 1976), al thriller con Fury (Id., 1972) e Vestito per uccidere (Dressed to Kill, 1980) fino al cinema di guerra/denuncia con Vittime di guerra (Casualties of War, 1989). Ma dopo la carota, purtroppo c'è sempre il bastone... e siccome soffro a fare certe affermazioni, lo dirò in maniera veloce, ma non – ahimè – indolore: Brian De Palma non ne azzecca più una da quasi vent'anni, ovvero dal già citato Carlito's way. Dopo di esso, il regista del New Jersey ha diretto solo film mediocri come Mission: Impossible (Id., 1996), Omicidio in diretta (Snake Eyes, 1998), Mission to Mars (Id., 2000), Femme fatale (Id., 2002) e, anche la pellicola in questione, Black Dahlia (The Black Dahlia, 2006) non sfugge dal baratro dell'anonimato artistico in cui sembra essere caduto l'autore. Parrebbe però che Redacted (Id., 2007), la sua ultima fatica registica, sia tutt'altro che malaccio. Il film si basa su un fatto di cronaca, ovvero lo stupro di un'adolescente da parte di alcuni soldati americani in Iraq: purtroppo non avendolo visto non posso esprimere un parere a proposito, ma spero vivamente che il buon vecchio Brian possa, se non tornare ai fasti di un tempo, almeno rialzarsi dopo le ultime fragorose cadute.
Ecco brevemente la trama di Black Dahlia. Los Angeles 1947, Bucky Bleichert e Lee Blanchard, due ex pugili entrambi ora poliziotti, si ritrovano invischiati in uno dei più brutali omicidi mai avvenuti nella “città degli angeli”: quello di Elisabeth Ann Short, giovane ragazza arrivata, come tante altre, ad Hollywood in cerca di fortuna, la quale sarà soprannominata, per il suo modo di vestirsi – ma anche per la sua passione per il film La dalia azzurra (The Blue Dahlia, 1946) –, dai giornalisti la Dalia Nera.
Voglio essere chiaro sin dall'inizio, Black Dahlia non è pessimo ed, in confronto ai più recenti lavori del regista, rappresenta comunque una piccola risalita... diciamo un primo passo di una lunga riabilitazione. Però non posso neanche dire che mi è piaciuto, molto probabilmente se non avessi conosciuto il libro da cui è tratto, l'avrei apprezzato un po' di più, ma comunque rimarrebbe sempre un lavoro senza infamia e senza lode, con pochi pregi e molti difetti. Ma il vero problema è, appunto, il libro: se hai letto l'opera letteraria di James Ellroy non puoi accettare di buon grado il film di Brian De Palma a priori; non perché lo sceneggiatore Josh Friedman si prenda chissà quali libertà nell'adattare il romanzo per il cinema, ma perché la pellicola sembra un riassunto fatto male. Sono perfettamente consapevole che non è un'impresa facile trasformare un libro in una buona sceneggiatura, che qualche parte va assolutamente tagliata e che quello che funziona sulla carta non è detto che funzioni su uno schermo, perché linguaggio letterario e linguaggio filmico sono diversissimi ed hanno ognuno le proprie regole, però certe decisioni non me le riesco proprio a spiegare. Uno. L'opera di James Ellroy è ambientata a Los Angeles come il film, ma in quest'ultimo non c'è praticamente quasi nessun riferimento ad Hollywood. What?? Mi chiedo come possa essere possibile una scelta del genere, il romanzo è praticamente incentrato su questo mondo “malato... lussurioso... esagerato...” ma nella pellicola di ciò non vi è traccia. Ma non parlo solo della trama, in cui vi è solo qualche breve accenno al mondo del cinema, ma soprattutto della caratterizzazione ambientale: girare un film su Hollywood, o comunque ambientato in quel mondo, senza Hollywood è veramente un paradosso. Due. Eliminare completamente la sempre più crescente ossessione che il protagonista, Bucky Bleichert, ha nei confronti della Dalia Nera. A mio avviso errore imperdonabile, perché in pratica il romanzo è basato sue questo: su come un caso di cronaca, così efferato e sconcertante, e con protagonista una giovane donna bella e ammaliante, abbia sconvolto la vita di chi ne è rimasto invischiato. Il fatto è che nel film di Brian De Palma, per semplificare la narrazione, vengono eliminati quasi tutti i colleghi di Bucky e Lee, compresi i due Vogel – padre e figlio – che nel romanzo hanno un ruolo chiave: la soffiata che il protagonista fa nei loro confronti, che porterà all'arresto di uno e al suicidio dell'altro, è l'inizio del declino della carriera di Bucky Bleichert e della sua ossessione per la Dalia Nera. Inoltre, non vi è nessun accenno all'attrazione sessuale che prova il protagonista per Elisabeth Ann Short e che lo spinge tra le braccia dell'aristocratica Madeleine Sprague. Tre. L'eccessiva semplificazione di alcuni personaggi chiave, in primis, Lee Blanchard: nel film non si capisce perché egli è così sconvolto dall'omicidio Short, mentre nel libro la spiegazione c'è ed è l'omicidio della sorella di cui egli si sente responsabile. Stesso discorso per il suo rapporto con il criminale Bobby DeWitt, il quale viene a malapena accennato. Anche il personaggio di Kay Lake perde molto appeal nel passaggio da libro a pellicola, infatti in quest'ultima essa ha un ruolo del tutto marginale. Il problema qui è dettato dal fatto che nel film viene tagliata completamente la parte del matrimonio tra Kay e Bucky. Eliminando questo “blocco” di romanzo, praticamente colei che era una figura chiave dell'opera di Ellroy diventa una sorta di anonima comprimaria. Tra l'altro, altra nota stonata, il “triangolo non triangolo” tra i tre protagonisti (Bucky Bleichert, Lee Blanchard e Kay Lake) non sembra interessare minimamente Brian De Palma, il quale preferisce concentrarsi su altri eventi.
Veniamo ora alle note positive: per prima cosa le scenografie di Dante Ferretti; esse, pur essendo poco incentrate su Hollywood, sono veramente stupefacenti. Sembra veramente di essere tornati indietro nel tempo, all'interno di uno di quei noir classici che andavano tanto di voga negli anni cinquanta. Secondo punto, la fotografia di Vilmos Zsigmond giustamente cupa come deve essere la fotografia di un film del genere. Infine, la regia di Brian De Palma. Il regista del New Jersey avrà pure perso l'ispirazione, però con la macchina da presa ci sa veramente fare. Guardare la scena del ritrovamento del cadavere per convincersi di ciò.
Ultima nota sugli attori. Onestamente la scelta del cast non mi sembra troppo azzeccata: Josh Hartnett, oltre ad avere qualche dubbio sulle sue capacità attoriali, è troppo bello per la parte di Bucky Bleichert, che nel libro viene descritto come una persona buffa per colpa di due “dentoni”; Aaron Eckahrt non riesce a dare spessore al personaggio di Lee Blanchard, ma in questo caso forse la colpa è anche della sceneggiatura; Scarlett Johansson – Kay Lake - è a mio avviso completamente fuori ruolo; va un po' meglio con Hilary Swank nella parte di Madeleine Sprague, ma sinceramente da un'attrice vincitrice di due premi Oscar ci si può aspettare di più. Conclusione: Black Movie.

martedì 17 novembre 2009

2000 MANIACS (Two Thousand Maniacs, 1964) di Herschell Gordon Lewis / 2001 MANIACS (Id., 2005) di Tim Sullivan

Nuovo post e novità assoluta! Due film al prezzo di uno... e pensare che non siamo neanche in periodo di saldi! Vedendo la lunghezza dei miei elaborati precedenti, non so se per voi è un bene o un male... comunque non preoccupatevi, il mio obbiettivo non è quello di “parlarvi” di due film, ma fare un discorso univoco prendendo spunto da entrambe le pellicole. Come si potrà ben capire dal titolo dei due film, ovvero 2000 Maniacs (Two Thousand Maniacs, 1964) di Herschell Gordon Lewis e 2001 Maniacs (Id., 2005) di Tim Sullivan, essi sono collegati; più esattamente il secondo è il remake del primo. Ed è su questo che voglio focalizzare la mia attenzione: su come un soggetto venga “modernizzato” e reinterpretato per renderlo fruibile agli spettatori dei nostri tempi. Perciò non mi resta che darvi il benvenuto al mio personale “Grindhouse”... Ma cosa diavolo è un Grindhouse??? “A Grindhouse is an American term for a theater that mainly showed exploitation films. [...] Grindhouse films are also referred to as exploitation films. Grindhouses were known for non-stop programs of B movies, usually consisting of a double feature where two films were shown back to back. [...] Grindhouse films was dominated by explicit sex, violence, bizarre or perverse plot points, and other taboo content...”. Si spengano le luci in sala e si dia inizio allo show...
Pellicola prodotta in grande povertà di mezzi, realizzazione grezza e approssimativa, inquadrature – spesso sbagliate... – fisse con pochi movimenti di camera, interpretazioni ridicole – la protagonista, Connie Mason, è un'ex coniglietta di Playboy – che fanno accapponare la pelle, musica country delirante e colonna sonora fastidiosa, sangue che sembra ketchup... eppure 2000 Maniacs è un cult assoluto... un film che tutti dovrebbero aver visto almeno una volta. Mamma mia, che lavoro leggendario girato da un regista altrettanto leggendario, H. G. Lewis soprannominato “the wizard of gore”, inventore e maestro indiscusso del genere “splatter” - dal verbo “to splat” che sta ad indicare lo schizzare del sangue – e creatore di pellicole troppo “tutto” per poter essere raccontate... delle vere e proprie delizie insomma! 2000 Maniacs è il secondo film diretto dal regista, dopo il trashissimo Blood Feast (Id., 1963): quest'ultimo è sicuramente meno riuscito e ancora peggio realizzato della pellicola in questione, ma è stato una grande scommessa vinta al botteghino... infatti dopo l'inaspettato boom di tale film H. G. Lewis avrebbe dichiarato: Hey, se questo filmaccio di merda ha fatto un mucchio di quattrini, cosa succederebbe se ne facessimo uno veramente buono?, e da qui nasce l'idea di girare 2000 Maniacs, il quale narra le vicende di tre coppie “yankee”, ovvero nordamericane, che finiscono “per sbaglio” a Pleasant Valley – “la valle del piacere”, nome che è tutto un programma –, uno sperduto paesino del profondo sud degli Stati Uniti. Essi giungono in tale luogo proprio nel periodo in cui si commemora il centesimo anniversario di un avvenimento particolarmente importante per la piccola cittadina e, proprio per questo motivo, vengono accolti come ospiti d'onore di tali festeggiamenti; il problema è che i sei ignari turisti non sanno che tutti gli abitanti di Pleasant Valley sono dei folli maniaci – da qui il titolo del film... – pronti, più che a far festa, a fargli “la festa”... e che festa... una gran festa con fiumi di emoglobina rossa!
Questo film è un “must”, e non mi stancherò mai di dirlo... è un insieme incredibile di scene cult e trash degne di entrare nella storia del cinema di serie B... ma la cosa che colpisce di più è il clima che si respira in tutta la pellicola: gioviale, burlesco, ci sono efferate uccisioni e tutto sembra una farsa, un carnevale rosso sangue... geniale, nient'altro da dire! Il regista è stato capace di inserire situazioni tipiche dei più violenti horror in una pellicola che a guardarla con attenzione sembra una commedia, perché essa ha veramente un impianto da commedia. Vedere tutta la popolazione divertirsi da matti quando i turisti vengono trucidati nei modi più “strambi” è qualcosa che non ha prezzo... per tutto il resto c'è Herschell Gordon Lewis: una ragazza viene legata per mani e per piedi a quattro cavalli, il risultato ve lo potete immaginare da soli... un altro sventurato viene buttato giù da una collina dentro una botte chiodata – rivisitazione del supplizio di Attilio Regolo – finendo ben infilzato in ogni dove... ma il climax di humour nero si raggiunge quando una giovane donna viene legata a terra con sopra un'enorme pietra e i popolani devono cercare di colpire un bersaglio per far cadere il macigno! Vedere la popolazione lanciare la pallina da baseball per colpire il bersaglio e intanto divertirsi in maniera spropositata è qualcosa che non ha prezzo... per tutto il resto c'è, sempre lui, Herschell Gordon Lewis... giù il cappello e solo applausi!!!
2001 Maniacs segue quasi linearmente il plot della pellicola originale... la storia subisce pochi cambiamenti e per niente influenti sul proseguo della vicenda. Però il film è stato ovviamente riadattato, o come dicevo nell'introduzione modernizzato, in modo da essere “vendibile” ai giorni nostri: il problema è che questi ammodernamenti sono le parti peggiori di un film comunque godibile e divertente. Tra l'altro il remake è prodotto anche da Eli Roth - regista di Hostel (Id., 2005) - il quale appare all'inizio in un cameo veramente delirante! Come quasi ogni horror post Scream (Id., 1996) anche in questo lavoro di Tim Sullivan largo spazio ad un cast poco più che adolescenziale... non mi soffermo sulle interpretazioni perché sarebbe un po' come sparare sull'ambulanza. Tra gli attori ne cito solo uno, anche perché è l'unico che conosco: nella parte di Buckman, psicopatico sindaco della cittadina, c'è Robert “Freddy Kruger” Englund, il quale domina, in lungo e in largo, tutto il film con la sua interpretazione completamente fuori dalla righe. Mi ricordo di un film di qualche anno fa, di cui ora mi sfugge il titolo, il quale venne anticipato da un lancio pubblicitario che prometteva molto sangue: “Oh yes, there will be more blood”. Ecco, questo slogan calzerebbe a pennello anche per la pellicola in questione; peccato che sangue non sia per forza sinonimo di tensione: infatti sotto questo aspetto il film langue molto... insomma ci troviamo di fronte a parecchie situazioni cruente ma per niente tese... scordatevi scene al cardiopalma alla Saw – l'enigmista (Saw, 2004) per intenderci, ma questo non è per forza un male, in quanto il regista cerca di ricreare la “spensierata” atmosfera - non riuscendovi in pieno, a dir la verità - di 2000 Maniacs. Veniamo al sangue... 2001 Maniacs è molto più violento e sanguinolento del film che riprende, ma vi è da dire che tra un'opera e l'altra ci sono più di quarant'anni di differenza e perciò l'effetto che fece il film di H. G. Lewis ai suoi tempi - il suo primo lavoro fu uno shock incredibile - non è nemmeno paragonabile al (non) effetto che fa, ai nostri giorni, il suo remake. Tra le scene più “forti” del rifacimento vi è sicuramente un'evirazione a morsi, mentre viene riproposta, con molti più dettagli truculenti, la scena dei cavalli: essa è l'unica uccisione identica in tutti e due i film.
Dicevo in precedenza che il “fattore restyling” è la parte peggiore del film... analizziamo questi cambiamenti un po' più nel dettaglio. A sostituire le tre coppie “qualunque” della pellicola originale, le quali a mio avviso funzionavano benissimo, ci sono questa volta otto personaggi: tre ragazzotti in cerca di sesso - e cosa se no?! -, un altro trio formato da due “gnocche” - potevano mancare?! certo che no - e un omosessuale, ed infine una coppia di “cattivi ragazzacci” formati da un nero e dalla sua “bad girl” asiatica - viva la par condicion -. Già con queste scelte il film, a mio parere, perde molto, perché l'humour e il clima da farsa che pervadeva 2000 Maniacs qui si trasforma in una serie di battutacce e situazioni tipiche da commedia sulla falsa riga di American Pie (Id., 1999). C'è da far notare però, in difesa di Tim Sullivan, che quando c'è da calcare la mano egli non si tira certo indietro: dopo una sfilza di battute a doppio senso sull'omosessualità della “checca” del gruppo, il regista gli cuce addosso una fine ad hoc... infilzato da un lungo “spiedone” che ovviamente lo penetra da dietro... e che si fottano i ben pensanti... più “politically uncorrent” di così! Ma la metafora sessuale non si ferma certo qua. Dopo i primi trenta minuti in cui c'è una grande abbondanza di “tette e culi” generosamente offerti dalle attrici - ??? - finalmente il film prende la piega giusta... quella rosso sangue! È interessante notare lo stretto rapporto che vi è tra sesso e morte in questo remake: poco più di dieci anni fa, in Scream, durante un party Randy, un ragazzo cinefilo appassionato di horror, elenca le regole per sopravvivere in ogni film dell'orrore. Tra di queste, la prima era “Non fare sesso”, evidentemente però i protagonisti di 2001 Maniacs non erano a conoscenza di questo decalogo, infatti essi vengono quasi tutti trucidati durante rapporti più o meno amorosi: la prima vittima spera di appartarsi con il bello del villaggio, ma si ritrova legata a quattro cavalli pronti a correre in direzioni opposte... un ragazzo, convinto di aver fatto centro con la milf - mother I'd like to fuck - di turno, viene “invitato” a bere dell'acido proprio durante un amplesso rimediando qualcosina in più di un piccolo bruciore di stomaco... lo sfigato del gruppo rimane vittima di un rapporto orale letale... e a ben vedere la metafora sesso/morte continua con la sodomizzazione dell'omosessuale grazie ad uno “spiedone”, il quale è chiaramente una rappresentazione fallica.
Ultima nota sul finale di entrambe le pellicole. I due “the end” sono molto simili ma forse, io preferisco il finale del film del 2005 con il colpo di scena finale, anche se oramai quasi tutti i prodotti horror hollywoodiani finisco in tale modo perciò non è che sia proprio quel gran colpo di scena. Il finale del lavoro di H. G. Lewis è più di impianto classico, bisogna sempre considerare però che il film ha più di quarant'anni sul groppone. Alla fine comunque sono due film, a mio avviso, da vedere: il primo è un mio “personal cult” e non posso che consigliarlo vivamente, mentre per quanto riguarda il suo remake... sicuramente ci sono modi migliori di passare meno di due ore... ma altrettanto certamente ce ne sono anche di molto peggiori! Conclusione: two film is megl che one.

giovedì 12 novembre 2009

PROSPETTIVE DI UN DELITTO (Vantage Point, 2008) di Pete Travis

Questo mio nuovo post non è come tutti gli altri... non è una nuova recensione, diciamo che è più un buttar giù qualche riflessione veloce su un film. Ieri un mio caro amico, compagno di battaglie sotto le plance e assiduo lettore del mio blog, mi ha chiesto cosa ne pensavo di Prospettive di un delitto (Vantage Point, 2008), una pellicola che tra l'altro non ho visto neanche troppo di recente... comunque spero di poter fare un'analisi almeno accettabile.
Il film di Pete Travis è incentrato su un attentato al presidente degli Stati Uniti in visita in Spagna, durante un discorso pubblico tenuto a Salamanca. Sfondo della vicenda è quasi esclusivamente la Plaza Major splendidamente ricostruita a Città del Messico. L'intreccio si sviluppa attraverso quello che hanno visto otto sconosciuti, protagonisti volontari ed involontari di questo delitto: praticamente lo spettatore è “vittima” di un gioco ad incastro architettato dal regista, il quale fa rivedere la scena dell'assassinio da diverse soggettive aggiungendo ogni volta una nuova componente del puzzle.
Prospettive di un delitto è, senza dubbio, un omaggio a Rashomon (Rasho-mon, 1950) di Akira Kurosawa, uno di quei lavori cinematografici che tendono a fare (la) storia (del cinema) ed essere abbastanza frequentemente omaggiati... ma a me sinceramente ha ricordato anche 11.14 – destino fatale (11.14, 2003) di Greg Marcks un thriller/horror in cui la vita di alcuni sconosciuti si intrecciava, a causa di avvenimenti apparentemente non legati tra loro, in un preciso orario: 11.14 p.m.
Come ho detto in precedenza, la pellicola l'ho vista un po' di tempo fa, ma mi ricordo che non mi aveva convinto: Prospettive di un delitto partiva da una buona idea di base ma che in seguito è stata sviluppata male e la seconda parte del film era, a mio avviso, imbarazzante... il che mi ha fatto sorgere il dubbio di trovarmi semplicemente davanti ad un esercizio di stile da parte di un giovane regista al suo esordio. Questo perché la parte iniziale, basata completamente sui flashback dei protagonisti, in parte funziona, anche se il meccanismo alla lunga stanca, ma è dopo questa prima parte che la pellicola di Pete Travis precipita clamorosamente. Il problema principale del film è però che la storia che narra è trita e ritrita, soprattutto dopo l'11 settembre 2001, giorno in cui non solo la vita di tutti gli americani è cambiata in maniera drastica, ma anche il loro modo di vedere il cinema ne è uscito modificato, in primo luogo quello d'azione: gli attentati terroristici sono entrati prepotentemente nella vita del popolo statunitense e il cinema da quel momento si è proposto come un “salvagente” a cui aggrapparsi a discapito anche della verosimiglianza della situazione e dello stesso svilupparsi di essa; l'importante era – ed è – dare la speranza – e la certezza – allo spettatore che il “male” per antonomasia possa essere vinto. Naturalmente la vittoria degli USA passa sempre attraverso uomini “tutti d'un pezzo”, ancora meglio se con un avvenimento problematico nel proprio passato, pronti a dare la vita per il prossimo: in questo caso è Dennis Quaid ad offrire, in maniera non tanto convinta, il proprio volto all'eroe di turno. Troppo di già visto in Prospettive di un delitto per poter coinvolgere veramente lo spettatore. Anche gli stessi protagonisti sono stereotipizzati al massimo: c'è il solito eroe turbato da un qualche cosa del suo passato, il solito traditore della patria, il solito ex-terrorista pentito, il solito ricattato costretto a fare quello che non vuole, il solito eroe involontario e i soliti innocenti, meglio se bambini... la solita solfa insomma! Personalmente non ho apprezzato neanche la figura del Presidente degli Stati Uniti veramente troppo troppo buonista... io non sono uno di quelli che dicono “americani bastardi” però un Presidente così è troppo anche per lo schermo cinematografico: alla fine risulta non credibile e ridicolo. Sicuramente è interessante l'idea iniziale dei flashback e la realizzazione tecnica è indiscutibilmente di alto livello, ma il gioco ad incastro è stato tirato troppo per le lunghe: vedere per cinque o sei volte lo stesso avvenimento anche se da prospettive diverse alla fine “rompe” e a questo poi si deve aggiungere che la snodarsi finale della vicenda è talmente veloce e approssimativo da sembrare un riassunto, e per di più, a tratti inverosimile. Incredibilmente pessima l'interpretazione di Forest Whitaker, uno degli attori più enigmatici della storia del cinema, capace di alternare interpretazioni eccelse, come quella per L'ultimo re di Scozia (The Last King of Scotland, 2006) che gli è valsa un premio Oscar come Miglior Attore, ad interpretazioni imbarazzanti come quella del film in questione.
A mio avviso non è un film da buttare completamente però è una gran occasione persa.

sabato 7 novembre 2009

CONDUCT ZERO (Pumhaeng Zero, 2002) di Cho Keun-Sik

Conduct Zero (Pumhaeng Zero, 2002) di Cho Keun-Sik è un film realizzato in Corea del Sud nel 2002 e presentato al “Far East Film” di Udine l'anno successivo. Per chi non lo sapesse il “Far East Film” è un festival, inaugurato nel 1999, interamente dedicato al cinema asiatico: esso è stato definito “la più ricca rassegna di cinema dell'estremo Oriente in Europa”. Il festival, oltre a ospitare le più recenti produzioni del cinema orientale, dedica ogni anno retrospettive specifiche su queste cinematografie sconosciute ai più. Tutto questo per dire come è strano il mondo... abbiamo una delle più importanti manifestazioni sul cinema d'Europa e pochissime persone ne sono a conoscenza, mentre del “Festival internazionale del film di Roma”, spocchiosa imitazione di rassegne cinematografiche ben più importanti, se ne occupano, giornalmente, tutti i telegiornali... ma la cosa più triste è che essi ne parlano solamente perché sta per arrivare la “coppia dell'anno” Clooney-Canalis... come direbbe Pino Scotto: “Vergogna... questa è l'Italia... puahh... – sputo! – parlate piuttosto di questi giovani che non trovano lavoro”...
L'opera prima del regista Cho Keun-Sik è stata, in patria, una vera e propria sorpresa al botteghino, dove è riuscita persino a tenere testa a Il signore degli anelli – Le due torri (The Lord of the Rings – The Two Towers, 2002), capitolo secondo della trilogia realizzata da Peter Jackson. Conduct Zero è una commedia, del genere di formazione, molto strana, in grado di passare con disinvoltura da situazioni paradossali, diciamo “da manga”, a scene più realistiche di cui alcune anche abbastanza cruente, soprattutto se confrontate con gli standard soliti di una commedia. L'intera pellicola verte intorno alla figura di Joong-pil, un “bullo”, re indiscusso della scuola superiore che frequenta grazie al suo pugno leggendario. Tutto fila liscio finché la sua cotta per una ragazza diligente, completamente diversa da lui, e l'arrivo di Sang-mahn, un altro giovane teppista, combattente formidabile grazie al suo coltello, metteranno a dura prova il suo trono di re. A questo punto il “nostro eroe” sarà costretto a dover scegliere tra l'amore e il rispetto... perché entrambi non sarà possibile ottenerli.
Io non sono un'amante delle commedie, anzi di solito le trovo scontate e noiose ed evito di guardarle: in tutta sincerità, preferisco quel cinema, che per un motivo o per un altro, ti tiene incollato alla sedia. Soprattutto, ho un'avversione per le commedie americane di “nuova generazione”, sullo stile di American Pie (Id., 1999) per intenderci, le ho sempre considerate stupide e per niente divertenti: tutta quella scorrettezza “politically correct” mi irrita – e non poco – ogni volta che ho la sfortuna di vedere una pellicola del genere. Considerazione personale: io non sopporto i film che non osano! Se una commedia – o qualsiasi altro genere di film – vuole essere “politically uncorrect” che lo sia fino in fondo. Nella mia recensione precedente ho accennato a 8 mm – omicidio a luci rosse (8MM, 1999): ecco, esso è l'esempio appropriato per spiegare quello che voglio dire. Il film di Joel Schumacher tratta un argomento di quelli che scottano – gli “snuff movie”, pellicole nelle quali le persone vengono uccise veramente dopo essere state torturate e violentate -, ma il regista newyorkese è un bluff... e il film è una “fuffa”. Joel Schumacher vorrebbe farci credere di essere davanti ad un “nasty movie” (ovvero un film cattivo, sporco e scorretto), ma nel momento clou quando c'è da dare la stilettata finale, perciò osare di più – appunto... –, ritira in maniera ridicola la mano, banalizzando e rendendo stupidamente innocuo un argomento, già di per se trattato in maniera superficiale, che meriterebbe un ben più approfondito sviluppo. Comunque, tornando alla commedia americana, secondo me il problema principale è che alla fine sono sempre le stesse situazioni, al limite del “pecoreccio”, ripetute all'infinito... a proposito di “pecoreccio”, c'è stato un periodo che mi sono interessato/appassionato alle italianissime “commedie scollacciate” degli anni settanta, ma è stato solo un fuoco di paglia, per mia fortuna. Però devo dire che le commedie orientali invece – preciso che non ne ho viste tantissime –, pur non facendomi impazzire, un po' mi affascinano... sarà forse per quel loro strano “sense of humour” che alla fine non è che si comprenda benissimo o per quelle situazioni, al limite del paradosso, che sembrano più adatte ad un “anime”, ovvero un cartone animato giapponese, piuttosto che ad un film vero e proprio, però devo ammettere che ogni tanto qualche sorriso convinto me l'hanno strappato. Mi riferisco in particolar modo ai film di Stephen Chow che sono arrivati anche in Italia: Shaolin Soccer (Siu Lam Juk Kau, 2001) e Kung Fusion (Kung Fu, 2004). Tra l'altro il primo film – consiglio spassionato – se potete, guardate la versione originale sottotitolata, perché quella italiana è scandalosa... oltre ad avere un doppiaggio ridicolo fatto da calciatori famosi (più o meno...) sotto effetto di alcolici – almeno spero per loro che fosse così – è stata inspiegabilmente tagliata: mancano all'appello più di venti minuti. Non è solo una questione di minuti mancanti, il fatto è che questi tagli hanno stravolto il senso della pellicola.
La commedia di Cho Keun-Sik è un film godibile, niente di eccezionale, ma comunque ben orchestrato dal regista. La pellicola è ambientata nel mondo delle High School coreane, e già questo è abbastanza per farci capire che il film tratterà, in particolar modo, il tema della violenza giovanile. Qui mi tocca fare una precisazione: Conduct Zero è ambientato negli anni ottanta e durante quegli anni le scuole coreane erano pervase da molta violenza. É perciò importante capire come in esse, spesso la “gerarchia” tra gli studenti fosse dettata dal valore di quest'ultimi nel combattimento, e come il più forte studente della scuola fosse una sorta di “re” al suo interno. Fa specie sentire che, come una delle cause scatenanti questa esplosione di violenza giovanile nelle scuole, venga indicato “sua Maestà” Bruce Lee: infatti parrebbe che i giovani di quell'epoca fossero ossessionati dalla figura di invincibile combattente che i film del “piccolo drago” dipingevano, tanto da generare una sorta di emulazione di massa. Il cinema sud-coreano è sempre stato molto attento a questo fenomeno di bullismo all'interno delle proprie scuole ed infatti nella maggior parte delle pellicole prodotte i giovani vengono dipinti come giovani teppisti – ma spesso anche come veri e propri “giovani gangster” – inclini all'utilizzo della forza fisica. A proposito di questo si possono fare due considerazioni: la prima è che spesso nelle pellicole, compresa Conduct Zero, i ragazzi delle scuole coreane sono divisi in bande e sono frequentissimi scontri tra esse soprattutto per motivi futili. Seconda considerazione: da questa rappresentazione della violenza giovanile non vengono escluse le ragazze. Nei film sud-coreani anch'esse si riuniscono in bande e sono molto inclini alla violenza. In Conduct Zero vediamo uno scontro tra una banda maschile e una femminile come se fosse la cosa più normale al mondo: ovviamente i boys le danno di santa ragione alle girls... forse in Corea del Sud il detto che dice “le ragazze non si toccano neanche con un fiore” non esiste! Comunque la violenza è presente anche nel film di Che Keun-Sik in cui, attraverso le avventure/disavventure del protagonista Joong-pil, il regista vuole farci capire come è difficile e complicato essere adolescenti nel proprio paese: ma il discorso può essere benissimo esteso a tutto il mondo. Il film essendo a tutti gli effetti una commedia non può trattare – anche se in maniera ironica – solo il tema della violenza giovanile ed infatti esso si intreccia con argomenti più consoni al genere come l'amore e l'amicizia: il primo bacio tra Joong-pil e Min-hee è tecnicamente realizzato in maniera impeccabile. Il regista attraverso continui stacchi della macchina da presa prima sul volto dell'uno poi sul volto dell'altro, con i due innamorati che aprono gli occhi per sbirciare a turno, riesce bene a trasmettere quel senso di insicurezza e fragilità emotiva che li pervade in quel momento. Però quello che colpisce maggiormente è il senso di disagio dei ragazzi sud-coreani che la pellicola trasmette: essi sono quasi tutti ragazzi in lotta con se stessi e con il mondo intero che vedono nella supremazia sugli altri l'unico motivo di rivalsa. Comunque il suo merito principale è stato quello di aver saputo amalgamare situazioni divertenti e paradossali con argomenti ben più seri e non di poco conto, ma senza mai calcare la mano ne sul lato comico ne su quello drammatico: tanto sono divertenti e fumettistici gli scontri all'inizio della pellicola – combattimenti che fanno il verso a Matrix (The Matrix, 1999) – tanto è violento e crudo il duello finale. In questo modo Conduct Zero riesce a toccare diversi temi che vanno dal disagio giovanile, appunto, al primo amore, senza tralasciare magari altri argomenti, i quali però vengono solo accennati come per esempio la pornografia: divertentissima la scena in cui Joong-pil cerca di rifilare dei disegni pornografici a due ragazzini, ma essi non li vogliono acquistare perché cercano esclusivamente disegni con Topolino e Minnie.
Devo dire che, dopo quest'attenta analisi/riflessione, ho accantonato anche i pochi dubbi che la visione della pellicola mi aveva lasciato e perciò mi sento di consigliare questo film a chi ha voglia di vedere qualche cosa di diverso dal solito o si voglia avvicinare al cinema orientale senza particolari difficoltà o patemi d'animo. Conclusione: profumo d'Oriente.

sabato 31 ottobre 2009

IL FANTASMA DELL'OPERA (The Phantom of the Opera, 2004) di Joel Schumacher

“Il fantasma dell'opera”, romanzo scritto da Gaston Leroux nel 1910, ha subito nel corso del ventesimo secolo, diverse trasposizioni cinematografiche, dieci per l'esattezza. La migliore resta senza dubbio la prima versione muta, realizzata nel 1925, con protagonista un indimenticabile Lon Chaney. Mentre la peggiore è senza dubbio – ahinoi, italiani – la versione “soft-core” di Dario Argento del 1998, con protagonista la figlia Asia, la quale viene “chiavata” dal fantasma Julian Sands in tutte le posizioni più note del kamasutra. Altra trasposizione da ricordare è quella americana del 1989, con protagonista principale – udite udite – Robert “Freddy Kruger” Englund. Ovviamente in questa pellicola si punta più sull'horror puro, con il fantasma che ha il volto in completo disfacimento, piuttosto che sul rapporto tra di attrazione/repulsione sentimentale tra la bella e la bestia. Ultima, meritatissima, menzione per Il fantasma del palcoscenico (Phantom of the Paradise, 1974) la rivisitazione pop-rock di Brian De Palma.
Il regista de Il fantasma dell'opera (The Phantom of the Opera, 2004) ha lo stesso cognome, Schumacher, di Michael, famoso pilota di formula 1 ma, purtroppo per lui, non è un fenomeno come quest'ultimo, ed ha lo stesso nome, Joel, di uno dei due fratelli Coen ma, sempre purtroppo per lui, non è neanche un genio come quest'altro; egli è solamente un onesto “fabbricante di sogni”. In trent'anni di carriera, Joel Schumacher, a mio avviso, ha diretto solo due pellicole degne di nota: Un giorno di ordinaria follia (Falling Down, 1993) con Michael Douglas e Tigerland (Id., 2000) con Colin Farrell. A questi due film, volendo proprio essere buoni, si potrebbe aggiungere qualche altro lavoro appena sufficiente come Ragazzi perduti (The Lost Boys, 1987), Linea mortale (Flatliners, 1990) e In linea con l'assassino (Phone Booth, 2002). Ma la verità è che la maggior parte dei suoi film sono nettamente sotto la sufficienza se non pessimi, ne cito due su tutti: 8mm – omicidio a luci rosse (8MM, 1999) con Nicholas Cage qua al suo minimo storico – interpretazione da far accapponare la pelle – e Bad company – protocollo Praga (Bad Company, 2002), ma la lista potrebbe essere molto più lunga... senza inoltre dimenticare che, per tutti i fans di Batman, è colui che ha cercato – quasi riuscendoci – di affossare la carriera filmica del povero “Cavaliere Oscuro”, con due pellicole pruriginose a dir poco, Batman & Robin (Batman and Robin, 1997) in primis e Batman Forever (Id., 1995) in secundis, anche se quest'ultimo effettivamente è un po' meglio del suo sequel con George Clooney.
Dopo questa parentesi, non propriamente felice sul regista, veniamo ora al film in questione, Il fantasma dell'opera, di primo achito, mi vien da dire che è una pellicola non riuscita quasi in nessuna sua parte... diciamo quasi pessima... però in questo caso non mi sento di dare addosso solamente a Joel Schumacher perché la pecca maggiore del film, a quanto ne so, non è colpa sua... ma andiamo con ordine. Non sto qua a spiegare la trama perché penso che chiunque la conosca, ma vi dico che quest'ultima versione cinematografica non è tratta direttamente dal romanzo di Gaston Leroux, ma è la “snobbatissima” trasposizione filmica del fortunato musical di Andrew Lloyd Webber, geniale autore di spettacoli musicali che hanno ottenuto grandi consensi da parte del pubblico come “Cats” e “Jesus Christ Superstar”. “Il fantasma dell'opera” di Webber è uno dei musical di maggior successo degli anni '90 e tra l'altro esso, a distanza di vent'anni, è ancora in programmazione. Il film è quindi, ovviamente, un musical ed è anche molto fedele alla sua contropartita teatrale, il che di solito non è un male ma in questo specifico caso risulta più un danno che un bene. Infatti tutto quello che penso abbia funzionato sul palcoscenico – almeno a vedere il successo – non funziona davanti alla cinepresa: a partire dalle coreografie musicali veramente poco ispirate... praticamente Joel Schumacher si è limitato a riproporre, davanti all'obiettivo, i vari momenti musicali del musical. Ma al cinema essi non funzionano... e anche a chi è appassionato, non credo che possano bastare solo quelli. Perché alla fine tutto il resto è “superficializzato” al massimo... la storia si riduce ad un'insulsa macchietta, un ridicolo triangolo d'amore che non coinvolgerà neanche i fans più sfegatati, quelli alla “Love Boat” per intenderci. Schumacher, ma anche Webber – perché a quanto sembra ha avuto voce un po' su tutti gli aspetti del film –, si disinteressa completamente del lato “dark” della vicenda preferendo concentrarsi su questo pseudo-triangolo d'amore tra i protagonisti, i quali passano tutto il film a rincorrersi, come ebeti, con sempre la stessa espressione sul volto. Chiunque abbia visto un film, almeno decente, tratto da “Il fantasma dell'opera” di Gaston Leroux saprà benissimo che la storia narrata è fortemente caratterizzata da un clima ascendente di tensione che raggiunge il suo culmine con il sabotaggio, e la conseguente caduta, del lampadario da parte del Fantasma; ma invece in questa versione purtroppo non è così... con questo non voglio dire che i due autori abbiano eliminato arbitrariamente le situazioni cardine del romanzo del 1910, le quali fanno evolvere la situazioni “sinistramente”, a discapito della storia d'amore, perché esse ci sono tutte: le lettere minatorie, le fugaci apparizioni del fantasma, gli stratagemmi per eliminare la concorrente dell'amata di quest'ultimo e, infine, il crollo del lampadario, appunto. Ma il fatto è che esse sono marginarie e sembrano quasi non influire minimamente sul proseguo della vicenda. Cerco di spiegarmi meglio... è come se il film partisse da un punto A e dovrebbe arrivare ad un punto B, ma il problema è che tra A e B non c'è niente! Altro esempio, mettiamo il caso che se voi foste su un treno e vedete in lontananza certe situazioni o accadimenti; possono essi condizionare il vostro tragitto? No, perché voi siete belli tranquilli su vostro treno... ecco, questa è la sensazione che ho avuto guardando Il fantasma dell'opera... totale disinteresse per eventi messi lì perché debbono essere messi, ma senza quel qualcosa in più che potesse dare un po' di ossigeno ad una fiammella morente. A mio avviso, manca completamente la “suspence”, pecca gravissima, perché non si può fare “Il fantasma dell'opera”, anche se in versione musical, come se facesse un polpettone sentimentale qualunque. No... no... caro Joel Schumacher... certe cose non si fanno!!! Comunque l'impressione che ho avuto è quella di assistere ad una brutta copia di Moulin Rouge (Id., 2001), ma lì c'erano Ewan McGregor e Nicole Kidman e qui Gerald Butler ed Emmy Rossum e alla regia c'era Buz Luhrmann e qui, invece, Joel Schumacher... non propriamente la stessa cosa. Non me la voglio prendere assolutamente con gli attori, perché sono convinto che il musical sia il genere più difficile da interpretare, ma in tutta onestà Gerald Butler, nel ruolo del fantasma è completamente fuori parte, Emmy Rossum è neutra, nel senso che non trasmette una minima emozione, e Patrick Wilson mantiene per tutto il film una faccia da pesce lesso. Ma il problema principale della pellicola di Joel Schumacher sorge, però, quando Andrew Lloyd Webber decide di far doppiare la parte musicale del film nella lingua di ogni paese di distribuzione. Il risultato – almeno in italiano – è a dir poco disastroso: non mi è mai capitato in vita mia di aver visto una così marchiata e pacchiana mancanza di sincronismo tra labiale e parole pronunciate (ovviamente mi sto riferendo solo alle parti cantate del film). Descriverlo a parole non rende bene l'idea... bisognerebbe averlo visto per comprendere appieno... ma vi garantisco che la scelta di tradurre le parti cantate è stata incredibilmente sbagliata! Tra l'altro, Andrew Lloyd Webber, che è stato anche produttore della pellicola, avrebbe affermato in un'intervista che la versione italiana è quella migliore... a questo punto, onestamente, non oso pensare come siano le altre versioni allora. Se, oltre a questo, si aggiunge poi il fatto che le canzoni tradotte – e aggiustate – risultano ridicole e stucchevoli si può ben capire come la scelta di Webber abbia inferto un colpo, se non letale, almeno da K.O. tecnico al film del regista newyorkese. Conclusione: nota stonata.

sabato 24 ottobre 2009

L'ASSASSINIO DI JESSE JAMES PER MANO DEL CODARDO ROBERT FORD (The Assassination of Jesse James by the Coward Robert Ford, 2007) di Andrew Dominik.

Secondo film del mio blog e si sale nettamente di livello, direi in maniera vertiginosa... quindi attenzione ai giramenti di testa. :) L'assassinio di Jesse James per mano del codardo Robert Ford di Andrew Dominik è veramente una pellicola notevole, e mi permetto di dire, senza fallo e senza vergogna, che è uno dei migliori film che ho visto di recente. Avevo già avuto modo di apprezzare le doti del regista neozelandese in Chopper (Id., 2000), film molto duro che narra delle vicende di un violento criminale australiano, Mark Brendon Read, detto appunto Chopper, ma devo dire questo suo secondo lavoro “malickeggiante” - da Terrence Malick, atipico regista americano, autore di quattro film in più di trent'anni – in quasi ogni suo elemento mi ha davvero piacevolmente sorpreso. Sicuramente, come spiegherò in seguito, non è un film per tutti e di facile visione, però a mio parere vale veramente la pena visionarlo – e non dico vederlo apposta – per apprezzare una pellicola per certi versi indecifrabile che è, per classificazione, un western, ma in fin dei conti è come se non lo fosse... vedere per credere. Devo inoltre dire che L'assassinio di Jesse James per mano del codardo Robert Ford oltre ad essere ben diretto da Andrew Dominik è anche ottimamente interpretato, soprattutto per quanto riguarda i tre attori “principali” - e più noti al pubblico – Brad Pitt, Casey Affleck e Sam Rockwell. Un attestato di stima soprattutto per il primo, il quale ha co-prodotto una pellicola del genere, sicuramente di difficile appeal sul pubblico, andando incontro ad un flop inevitabile... e non credo proprio possibile che non fosse consapevole del fatto il film sarebbe stato, come appunto si è verificato, un fiasco clamoroso.
Partiamo da un presupposto imprescindibile, L'assassinio di Jesse James per mano del codardo Robert Ford è uno dei film più “malickiani” degli ultimi anni e io sono un grande estimatore del regista texano tanto da aver apprezzato anche The new world – il nuovo mondo (The New World, 2005) – al punto da averci fatto la mia tesi di laurea – davanti al quale molti dei suoi sostenitori hanno storto il naso. Sul web, in molti forum “specializzati”, ho letto commenti che circoscrivevano il prodotto registico di Andrew Dominik ad uno “scimmiottamento” dei lavori di Terrence Malick; io sono più propenso a vedere in questo film, piuttosto, un continuo omaggio al regista texano, il quale a detta dello stesso autore di L'assassinio di Jesse James per mano del codardo Robert Ford oltre ad essere un suo caro amico è anche il suo unico punto di riferimento in ambito cinematografico. E chi ha visto il film non può che trovarsi d'accordo con questa sua ultima affermazione; infatti confrontando la pellicola di Andrew Dominik con le opere di Terrence Malick, non si può non riscontrare almeno tre punti di incontro: il primo sicuramente è lo stile narrativo, il regista neozelandese ripropone lo stile, fatto di ritmi lenti e tempi dilatati, che ha reso celebre il regista de La sottile linea rossa (The Thin Red Line, 1998); il secondo riguarda, invece, lo stile filmico, il quale si rifà chiaramente alla filmografia “malickiana” in particolar modo a I giorni del cielo (The Days of Heaven, 1978). La fotografia del film di Dominik è, innegabilmente, molto debitrice nei confronti di quella di Almendros – tra l'altro vincitrice dell'Oscar – della pellicola di Malick. Il terzo punto di incontro è l'utilizzo della voce over stilema caratteristico di tutta la carriera del regista texano. Come Terrence Malick, anche Andrew Dominik affida ad uno dei personaggi principali – il “codardo” Robert Ford – il compito di narrarci la vicenda e, sempre come nei film di Malick, il protagonista non narra la “storia” in modo analitico, cioè raccontandoci esclusivamente i fatti, ma vi inserisce i propri stati d'animo e il mutamento dei propri sentimenti nei confronti del bandito-idolo Jesse James.
La pellicola, tratta dall'omonimo romanzo di Ron Hansen, si concentra sul periodo appena precedente alla morte di Jesse James, in particolar modo sul rapporto che quest'ultimo instaura con Robert Ford, il suo assassino. Robert Ford è un giovane di neanche vent'anni che fin da piccolo ha un'ammirazione smisurata per il famoso bandito, tanto da voler a tutti i costi entrare, alla fine riuscendovi, nella sua banda di fuorilegge. Ma la diffidenza e il non particolare interesse che Jesse dimostra nei suoi confronti è per Robert un affronto troppo grande, il quale, ferito nell'orgoglio e soprattutto nella sua ambizione, trasformerà il suo “amore” in “odio”, portandolo a compiere quell'atto che lo marchierà a vita, ed anche oltre, come il più grande codardo della storia americana.
Il film di Andrew Dominik non è certo un film facile da vedere, è una di quelle pellicole che ai più può apparire noiosa e magari anche priva di senso. La difficoltà di visione è data si dalla lunghezza del film, quasi 160 minuti, ma soprattutto dal fatto che l'azione è praticamente a zero. Io sono convinto che la maggior parte dei – purtroppo – pochi spettatori che ha visto il film fosse completamente impreparata ad una visione di un film del genere. Io – spettatore medio – non posso andare al cinema, o noleggiare un film, pensando di trovarmi di fronte ad una pellicola di western con sparatorie, saloon, belle donne in sottoveste e chi più ne ha ne metta, e poi apprezzare un film che ne è l'esatto opposto e non ha niente di tutto questo... ne sono pienamente convinto. Un film di tale portata va visto consapevolmente per poter essere pienamente goduto. La (non) storia di Jesse James è un racconto introspettivo, la vicenda di un mito incapace di essere tale e di un ragazzo neanche ventenne che invece è disposto a tutto pur di diventarlo. Una storia che, pur essendo ambientata nel XIX secolo, potrebbe benissimo essere riproposta ai giorni nostri: cosa si sarebbe disposti a fare pur di diventare qualcuno?! Risposta: basta guardare la televisione... e quante volte si è sentito di affermate celebrità, che ai nostri occhi di “poveri diavoli qualunque” dovrebbero essere le persone più felici del mondo, autodistruggersi o persino arrivare a tentare il suicidio?! Purtroppo non è tutto oro quello che luccica, e forse anche Jesse James, il bandito più famoso della storia americana, alla fine è stato solo un “povero diavolo qualunque”... sicuramente è morto come tale. La domanda quasi immediata che ci si pone durante la visione è la seguente: perché fare un film su uno dei più grandi e discussi eroi dell'epoca western senza il western?! Bella domanda, difficile risposta... in effetti L'assassinio di Jesse James per mano del codardo Robert Ford andrebbe annoverato come film western ma non lo è, almeno nel senso classico e stretto del termine. Il film di Andrew Dominik è, come detto in precedenza, una pellicola introspettiva che si basa quasi esclusivamente sul rapporto tra i due protagonisti, interpretati in maniera eccelsa da Brad Pitt e Casey Affleck; inoltre a mio parere l'ambientazione storica – Missouri, fine XIX secolo – non basta per catalogarlo in un circoscritto genere cinematografico. Volendo essere più precisi, l'unica sequenza da film western è l'ultima scorribanda effettuata dai fratelli James, ovvero l'assalto al treno all'inizio del film; da questo momento in poi il film cercherà di riproporre in maniera fedele, ma anche lacunosa, gli avvenimenti che porteranno alla morte di Jesse James. Questa lacunosità ha dato adito ad alcune critiche alla pellicola, ma a mio avviso non intacca l'anima del film di Andrew Dominik. Infatti come in The new world – il nuovo mondo di Malick – rieccolo! – anche nel lavoro del regista neozelandese le vicende storiche passano in secondo piano rispetto alle vicende interiori dei due personaggi principali. Ed è in questa scelta che il film risulta vincente, infatti Andrew Dominik riesce bene a trasmettere allo spettatore i mutamenti che avvengono nell'animo dei protagonisti, a partire da Robert Ford, prima ammiratore fanatico di Jesse James e poi persona ferita in cerca di vendetta e gloria. Appunto la gloria è forse il filo conduttore di tutta la pellicola perché, a conti fatti, è il vero scopo che si prefigge fin dall'inizio il “codardo” Robert Ford: l'ammirazione iniziale per il bandito-eroe non è voglia di essere come lui, ma folle desiderio di essere lui, di essere quello che lui è per la gente della sua epoca, e soprattutto quello che potrà essere – e sarà – per le popolazioni degli anni a venire... un mito, una leggenda. Infatti, ad un certo punto, Jesse James, che forse inizia ad intuire la morbosità dell'ammirazione che nutre per lui il ragazzo, gli chiederà “Non riesco a capire. Vuoi essere come me o vuoi essere me?”, chiaro riferimento alla bramosia di essere qualcuno che ha intravisto – anche prima dello spettatore – nel suo “antagonista”. A conti fatti il tramutato desiderio di essere ricordato non più come un novello Jesse James, ma come colui che ha ucciso Jesse James non stupisce più di tanto e va inquadrato sempre nella continua ricerca di essere qualcuno, di essere ricordato, di vivere nei secoli dei secoli, da parte di Robert Ford. Una gloria effimera che, come scoprirà in seguito a sue spese, sarà per lui soltanto una dannazione. Anche per quanto riguarda la vicenda di Jesse James il filo conduttore è la gloria, quella gloria che Robert Ford vorrebbe avere e che lui invece ha, la quale in fin dei conti gli permetterebbe di vivere in grandezza e che dovrebbe farlo sentire superiore a tutti gli altri, ma che in realtà è solamente un peso che lo sta lentamente uccidendo dentro spingendolo al “suicidio”, perché alla fine di questo si tratta: la modalità con cui viene rappresentata la morte di Jesse James ad opera di Robert Ford, ovvero con il bandito che prima si toglie il cinturone con le pistole e poi dà le spalle di proposito a quello che sapeva con certezza essere il suo assassino, non può non far non pensare ad una volontà di morte – liberazione – da parte di Jesse James. A questo proposito si può sottolineare una nuova chiave di lettura della pellicola di Andrew Dominik, che come detto in precedenza, procede soprattutto grazie ai rapporti tra i due personaggi principali; è però evidente che il film sviluppa anche un rapporto di conflitto infra-personale, ovvero ognuno dei protagonisti è in conflitto anche con se stesso. Lo è il bandito Jesse James, il quale non riesce a vivere – ed apprezzare – la sua dimensione di mito ed è completamente incapace di fidarsi del prossimo, risultando alla fine, come quasi tutti gli “eroi”, solo. Lo è il “codardo” Robert Ford vittima dell'ossessione di mostrare a se stesso e a tutti gli altri di poter essere qualcuno. Ma sarà proprio questa sua voglia di dimostrarsi coraggioso a farlo ricordare da tutti come l'esatto opposto, ovvero il “codardo” che ha ucciso vilmente alla spalle Jesse James... e alla fine risulta evidente che i suoi sogni di gloria eterna sono stati soltanto un illusione come, tra l'altro, mestamente ci fa capire egli stesso in una delle sue ultime battute del film: “Jesse James era più grande di quanto si possa immaginare. Uno può cercare di avvicinarsi a lui, di voler essere insieme a lui, di voler essere come lui… ma finisce sempre che qualcosa manca”. Conclusione: ¿Quien puede matar una leyenda?
Post Scriptum: Brad Pitt per la sua interpretazione ha vinto la Coppa Volpi come miglior attore alla "Mostra del Cinema di Venezia". Sicuramente la sua è stata un'interpretazione notevole, ma io sono convinto che Casey Affleck avrebbe meritato il premio molto più del suo “più famoso” collega. La sua interpretazione nei panni del “codardo” Robert Ford è stata una delle migliori di tutto il 2007 e la sua mancata premiazione alla Mostra del Cinema – soprattutto se a discapito di Brad Pitt – non me la riesco proprio a spiegare... forse la codardia è stata punita ancora una volta... e questa volta ingiustamente!