sabato 31 ottobre 2009

IL FANTASMA DELL'OPERA (The Phantom of the Opera, 2004) di Joel Schumacher

“Il fantasma dell'opera”, romanzo scritto da Gaston Leroux nel 1910, ha subito nel corso del ventesimo secolo, diverse trasposizioni cinematografiche, dieci per l'esattezza. La migliore resta senza dubbio la prima versione muta, realizzata nel 1925, con protagonista un indimenticabile Lon Chaney. Mentre la peggiore è senza dubbio – ahinoi, italiani – la versione “soft-core” di Dario Argento del 1998, con protagonista la figlia Asia, la quale viene “chiavata” dal fantasma Julian Sands in tutte le posizioni più note del kamasutra. Altra trasposizione da ricordare è quella americana del 1989, con protagonista principale – udite udite – Robert “Freddy Kruger” Englund. Ovviamente in questa pellicola si punta più sull'horror puro, con il fantasma che ha il volto in completo disfacimento, piuttosto che sul rapporto tra di attrazione/repulsione sentimentale tra la bella e la bestia. Ultima, meritatissima, menzione per Il fantasma del palcoscenico (Phantom of the Paradise, 1974) la rivisitazione pop-rock di Brian De Palma.
Il regista de Il fantasma dell'opera (The Phantom of the Opera, 2004) ha lo stesso cognome, Schumacher, di Michael, famoso pilota di formula 1 ma, purtroppo per lui, non è un fenomeno come quest'ultimo, ed ha lo stesso nome, Joel, di uno dei due fratelli Coen ma, sempre purtroppo per lui, non è neanche un genio come quest'altro; egli è solamente un onesto “fabbricante di sogni”. In trent'anni di carriera, Joel Schumacher, a mio avviso, ha diretto solo due pellicole degne di nota: Un giorno di ordinaria follia (Falling Down, 1993) con Michael Douglas e Tigerland (Id., 2000) con Colin Farrell. A questi due film, volendo proprio essere buoni, si potrebbe aggiungere qualche altro lavoro appena sufficiente come Ragazzi perduti (The Lost Boys, 1987), Linea mortale (Flatliners, 1990) e In linea con l'assassino (Phone Booth, 2002). Ma la verità è che la maggior parte dei suoi film sono nettamente sotto la sufficienza se non pessimi, ne cito due su tutti: 8mm – omicidio a luci rosse (8MM, 1999) con Nicholas Cage qua al suo minimo storico – interpretazione da far accapponare la pelle – e Bad company – protocollo Praga (Bad Company, 2002), ma la lista potrebbe essere molto più lunga... senza inoltre dimenticare che, per tutti i fans di Batman, è colui che ha cercato – quasi riuscendoci – di affossare la carriera filmica del povero “Cavaliere Oscuro”, con due pellicole pruriginose a dir poco, Batman & Robin (Batman and Robin, 1997) in primis e Batman Forever (Id., 1995) in secundis, anche se quest'ultimo effettivamente è un po' meglio del suo sequel con George Clooney.
Dopo questa parentesi, non propriamente felice sul regista, veniamo ora al film in questione, Il fantasma dell'opera, di primo achito, mi vien da dire che è una pellicola non riuscita quasi in nessuna sua parte... diciamo quasi pessima... però in questo caso non mi sento di dare addosso solamente a Joel Schumacher perché la pecca maggiore del film, a quanto ne so, non è colpa sua... ma andiamo con ordine. Non sto qua a spiegare la trama perché penso che chiunque la conosca, ma vi dico che quest'ultima versione cinematografica non è tratta direttamente dal romanzo di Gaston Leroux, ma è la “snobbatissima” trasposizione filmica del fortunato musical di Andrew Lloyd Webber, geniale autore di spettacoli musicali che hanno ottenuto grandi consensi da parte del pubblico come “Cats” e “Jesus Christ Superstar”. “Il fantasma dell'opera” di Webber è uno dei musical di maggior successo degli anni '90 e tra l'altro esso, a distanza di vent'anni, è ancora in programmazione. Il film è quindi, ovviamente, un musical ed è anche molto fedele alla sua contropartita teatrale, il che di solito non è un male ma in questo specifico caso risulta più un danno che un bene. Infatti tutto quello che penso abbia funzionato sul palcoscenico – almeno a vedere il successo – non funziona davanti alla cinepresa: a partire dalle coreografie musicali veramente poco ispirate... praticamente Joel Schumacher si è limitato a riproporre, davanti all'obiettivo, i vari momenti musicali del musical. Ma al cinema essi non funzionano... e anche a chi è appassionato, non credo che possano bastare solo quelli. Perché alla fine tutto il resto è “superficializzato” al massimo... la storia si riduce ad un'insulsa macchietta, un ridicolo triangolo d'amore che non coinvolgerà neanche i fans più sfegatati, quelli alla “Love Boat” per intenderci. Schumacher, ma anche Webber – perché a quanto sembra ha avuto voce un po' su tutti gli aspetti del film –, si disinteressa completamente del lato “dark” della vicenda preferendo concentrarsi su questo pseudo-triangolo d'amore tra i protagonisti, i quali passano tutto il film a rincorrersi, come ebeti, con sempre la stessa espressione sul volto. Chiunque abbia visto un film, almeno decente, tratto da “Il fantasma dell'opera” di Gaston Leroux saprà benissimo che la storia narrata è fortemente caratterizzata da un clima ascendente di tensione che raggiunge il suo culmine con il sabotaggio, e la conseguente caduta, del lampadario da parte del Fantasma; ma invece in questa versione purtroppo non è così... con questo non voglio dire che i due autori abbiano eliminato arbitrariamente le situazioni cardine del romanzo del 1910, le quali fanno evolvere la situazioni “sinistramente”, a discapito della storia d'amore, perché esse ci sono tutte: le lettere minatorie, le fugaci apparizioni del fantasma, gli stratagemmi per eliminare la concorrente dell'amata di quest'ultimo e, infine, il crollo del lampadario, appunto. Ma il fatto è che esse sono marginarie e sembrano quasi non influire minimamente sul proseguo della vicenda. Cerco di spiegarmi meglio... è come se il film partisse da un punto A e dovrebbe arrivare ad un punto B, ma il problema è che tra A e B non c'è niente! Altro esempio, mettiamo il caso che se voi foste su un treno e vedete in lontananza certe situazioni o accadimenti; possono essi condizionare il vostro tragitto? No, perché voi siete belli tranquilli su vostro treno... ecco, questa è la sensazione che ho avuto guardando Il fantasma dell'opera... totale disinteresse per eventi messi lì perché debbono essere messi, ma senza quel qualcosa in più che potesse dare un po' di ossigeno ad una fiammella morente. A mio avviso, manca completamente la “suspence”, pecca gravissima, perché non si può fare “Il fantasma dell'opera”, anche se in versione musical, come se facesse un polpettone sentimentale qualunque. No... no... caro Joel Schumacher... certe cose non si fanno!!! Comunque l'impressione che ho avuto è quella di assistere ad una brutta copia di Moulin Rouge (Id., 2001), ma lì c'erano Ewan McGregor e Nicole Kidman e qui Gerald Butler ed Emmy Rossum e alla regia c'era Buz Luhrmann e qui, invece, Joel Schumacher... non propriamente la stessa cosa. Non me la voglio prendere assolutamente con gli attori, perché sono convinto che il musical sia il genere più difficile da interpretare, ma in tutta onestà Gerald Butler, nel ruolo del fantasma è completamente fuori parte, Emmy Rossum è neutra, nel senso che non trasmette una minima emozione, e Patrick Wilson mantiene per tutto il film una faccia da pesce lesso. Ma il problema principale della pellicola di Joel Schumacher sorge, però, quando Andrew Lloyd Webber decide di far doppiare la parte musicale del film nella lingua di ogni paese di distribuzione. Il risultato – almeno in italiano – è a dir poco disastroso: non mi è mai capitato in vita mia di aver visto una così marchiata e pacchiana mancanza di sincronismo tra labiale e parole pronunciate (ovviamente mi sto riferendo solo alle parti cantate del film). Descriverlo a parole non rende bene l'idea... bisognerebbe averlo visto per comprendere appieno... ma vi garantisco che la scelta di tradurre le parti cantate è stata incredibilmente sbagliata! Tra l'altro, Andrew Lloyd Webber, che è stato anche produttore della pellicola, avrebbe affermato in un'intervista che la versione italiana è quella migliore... a questo punto, onestamente, non oso pensare come siano le altre versioni allora. Se, oltre a questo, si aggiunge poi il fatto che le canzoni tradotte – e aggiustate – risultano ridicole e stucchevoli si può ben capire come la scelta di Webber abbia inferto un colpo, se non letale, almeno da K.O. tecnico al film del regista newyorkese. Conclusione: nota stonata.

sabato 24 ottobre 2009

L'ASSASSINIO DI JESSE JAMES PER MANO DEL CODARDO ROBERT FORD (The Assassination of Jesse James by the Coward Robert Ford, 2007) di Andrew Dominik.

Secondo film del mio blog e si sale nettamente di livello, direi in maniera vertiginosa... quindi attenzione ai giramenti di testa. :) L'assassinio di Jesse James per mano del codardo Robert Ford di Andrew Dominik è veramente una pellicola notevole, e mi permetto di dire, senza fallo e senza vergogna, che è uno dei migliori film che ho visto di recente. Avevo già avuto modo di apprezzare le doti del regista neozelandese in Chopper (Id., 2000), film molto duro che narra delle vicende di un violento criminale australiano, Mark Brendon Read, detto appunto Chopper, ma devo dire questo suo secondo lavoro “malickeggiante” - da Terrence Malick, atipico regista americano, autore di quattro film in più di trent'anni – in quasi ogni suo elemento mi ha davvero piacevolmente sorpreso. Sicuramente, come spiegherò in seguito, non è un film per tutti e di facile visione, però a mio parere vale veramente la pena visionarlo – e non dico vederlo apposta – per apprezzare una pellicola per certi versi indecifrabile che è, per classificazione, un western, ma in fin dei conti è come se non lo fosse... vedere per credere. Devo inoltre dire che L'assassinio di Jesse James per mano del codardo Robert Ford oltre ad essere ben diretto da Andrew Dominik è anche ottimamente interpretato, soprattutto per quanto riguarda i tre attori “principali” - e più noti al pubblico – Brad Pitt, Casey Affleck e Sam Rockwell. Un attestato di stima soprattutto per il primo, il quale ha co-prodotto una pellicola del genere, sicuramente di difficile appeal sul pubblico, andando incontro ad un flop inevitabile... e non credo proprio possibile che non fosse consapevole del fatto il film sarebbe stato, come appunto si è verificato, un fiasco clamoroso.
Partiamo da un presupposto imprescindibile, L'assassinio di Jesse James per mano del codardo Robert Ford è uno dei film più “malickiani” degli ultimi anni e io sono un grande estimatore del regista texano tanto da aver apprezzato anche The new world – il nuovo mondo (The New World, 2005) – al punto da averci fatto la mia tesi di laurea – davanti al quale molti dei suoi sostenitori hanno storto il naso. Sul web, in molti forum “specializzati”, ho letto commenti che circoscrivevano il prodotto registico di Andrew Dominik ad uno “scimmiottamento” dei lavori di Terrence Malick; io sono più propenso a vedere in questo film, piuttosto, un continuo omaggio al regista texano, il quale a detta dello stesso autore di L'assassinio di Jesse James per mano del codardo Robert Ford oltre ad essere un suo caro amico è anche il suo unico punto di riferimento in ambito cinematografico. E chi ha visto il film non può che trovarsi d'accordo con questa sua ultima affermazione; infatti confrontando la pellicola di Andrew Dominik con le opere di Terrence Malick, non si può non riscontrare almeno tre punti di incontro: il primo sicuramente è lo stile narrativo, il regista neozelandese ripropone lo stile, fatto di ritmi lenti e tempi dilatati, che ha reso celebre il regista de La sottile linea rossa (The Thin Red Line, 1998); il secondo riguarda, invece, lo stile filmico, il quale si rifà chiaramente alla filmografia “malickiana” in particolar modo a I giorni del cielo (The Days of Heaven, 1978). La fotografia del film di Dominik è, innegabilmente, molto debitrice nei confronti di quella di Almendros – tra l'altro vincitrice dell'Oscar – della pellicola di Malick. Il terzo punto di incontro è l'utilizzo della voce over stilema caratteristico di tutta la carriera del regista texano. Come Terrence Malick, anche Andrew Dominik affida ad uno dei personaggi principali – il “codardo” Robert Ford – il compito di narrarci la vicenda e, sempre come nei film di Malick, il protagonista non narra la “storia” in modo analitico, cioè raccontandoci esclusivamente i fatti, ma vi inserisce i propri stati d'animo e il mutamento dei propri sentimenti nei confronti del bandito-idolo Jesse James.
La pellicola, tratta dall'omonimo romanzo di Ron Hansen, si concentra sul periodo appena precedente alla morte di Jesse James, in particolar modo sul rapporto che quest'ultimo instaura con Robert Ford, il suo assassino. Robert Ford è un giovane di neanche vent'anni che fin da piccolo ha un'ammirazione smisurata per il famoso bandito, tanto da voler a tutti i costi entrare, alla fine riuscendovi, nella sua banda di fuorilegge. Ma la diffidenza e il non particolare interesse che Jesse dimostra nei suoi confronti è per Robert un affronto troppo grande, il quale, ferito nell'orgoglio e soprattutto nella sua ambizione, trasformerà il suo “amore” in “odio”, portandolo a compiere quell'atto che lo marchierà a vita, ed anche oltre, come il più grande codardo della storia americana.
Il film di Andrew Dominik non è certo un film facile da vedere, è una di quelle pellicole che ai più può apparire noiosa e magari anche priva di senso. La difficoltà di visione è data si dalla lunghezza del film, quasi 160 minuti, ma soprattutto dal fatto che l'azione è praticamente a zero. Io sono convinto che la maggior parte dei – purtroppo – pochi spettatori che ha visto il film fosse completamente impreparata ad una visione di un film del genere. Io – spettatore medio – non posso andare al cinema, o noleggiare un film, pensando di trovarmi di fronte ad una pellicola di western con sparatorie, saloon, belle donne in sottoveste e chi più ne ha ne metta, e poi apprezzare un film che ne è l'esatto opposto e non ha niente di tutto questo... ne sono pienamente convinto. Un film di tale portata va visto consapevolmente per poter essere pienamente goduto. La (non) storia di Jesse James è un racconto introspettivo, la vicenda di un mito incapace di essere tale e di un ragazzo neanche ventenne che invece è disposto a tutto pur di diventarlo. Una storia che, pur essendo ambientata nel XIX secolo, potrebbe benissimo essere riproposta ai giorni nostri: cosa si sarebbe disposti a fare pur di diventare qualcuno?! Risposta: basta guardare la televisione... e quante volte si è sentito di affermate celebrità, che ai nostri occhi di “poveri diavoli qualunque” dovrebbero essere le persone più felici del mondo, autodistruggersi o persino arrivare a tentare il suicidio?! Purtroppo non è tutto oro quello che luccica, e forse anche Jesse James, il bandito più famoso della storia americana, alla fine è stato solo un “povero diavolo qualunque”... sicuramente è morto come tale. La domanda quasi immediata che ci si pone durante la visione è la seguente: perché fare un film su uno dei più grandi e discussi eroi dell'epoca western senza il western?! Bella domanda, difficile risposta... in effetti L'assassinio di Jesse James per mano del codardo Robert Ford andrebbe annoverato come film western ma non lo è, almeno nel senso classico e stretto del termine. Il film di Andrew Dominik è, come detto in precedenza, una pellicola introspettiva che si basa quasi esclusivamente sul rapporto tra i due protagonisti, interpretati in maniera eccelsa da Brad Pitt e Casey Affleck; inoltre a mio parere l'ambientazione storica – Missouri, fine XIX secolo – non basta per catalogarlo in un circoscritto genere cinematografico. Volendo essere più precisi, l'unica sequenza da film western è l'ultima scorribanda effettuata dai fratelli James, ovvero l'assalto al treno all'inizio del film; da questo momento in poi il film cercherà di riproporre in maniera fedele, ma anche lacunosa, gli avvenimenti che porteranno alla morte di Jesse James. Questa lacunosità ha dato adito ad alcune critiche alla pellicola, ma a mio avviso non intacca l'anima del film di Andrew Dominik. Infatti come in The new world – il nuovo mondo di Malick – rieccolo! – anche nel lavoro del regista neozelandese le vicende storiche passano in secondo piano rispetto alle vicende interiori dei due personaggi principali. Ed è in questa scelta che il film risulta vincente, infatti Andrew Dominik riesce bene a trasmettere allo spettatore i mutamenti che avvengono nell'animo dei protagonisti, a partire da Robert Ford, prima ammiratore fanatico di Jesse James e poi persona ferita in cerca di vendetta e gloria. Appunto la gloria è forse il filo conduttore di tutta la pellicola perché, a conti fatti, è il vero scopo che si prefigge fin dall'inizio il “codardo” Robert Ford: l'ammirazione iniziale per il bandito-eroe non è voglia di essere come lui, ma folle desiderio di essere lui, di essere quello che lui è per la gente della sua epoca, e soprattutto quello che potrà essere – e sarà – per le popolazioni degli anni a venire... un mito, una leggenda. Infatti, ad un certo punto, Jesse James, che forse inizia ad intuire la morbosità dell'ammirazione che nutre per lui il ragazzo, gli chiederà “Non riesco a capire. Vuoi essere come me o vuoi essere me?”, chiaro riferimento alla bramosia di essere qualcuno che ha intravisto – anche prima dello spettatore – nel suo “antagonista”. A conti fatti il tramutato desiderio di essere ricordato non più come un novello Jesse James, ma come colui che ha ucciso Jesse James non stupisce più di tanto e va inquadrato sempre nella continua ricerca di essere qualcuno, di essere ricordato, di vivere nei secoli dei secoli, da parte di Robert Ford. Una gloria effimera che, come scoprirà in seguito a sue spese, sarà per lui soltanto una dannazione. Anche per quanto riguarda la vicenda di Jesse James il filo conduttore è la gloria, quella gloria che Robert Ford vorrebbe avere e che lui invece ha, la quale in fin dei conti gli permetterebbe di vivere in grandezza e che dovrebbe farlo sentire superiore a tutti gli altri, ma che in realtà è solamente un peso che lo sta lentamente uccidendo dentro spingendolo al “suicidio”, perché alla fine di questo si tratta: la modalità con cui viene rappresentata la morte di Jesse James ad opera di Robert Ford, ovvero con il bandito che prima si toglie il cinturone con le pistole e poi dà le spalle di proposito a quello che sapeva con certezza essere il suo assassino, non può non far non pensare ad una volontà di morte – liberazione – da parte di Jesse James. A questo proposito si può sottolineare una nuova chiave di lettura della pellicola di Andrew Dominik, che come detto in precedenza, procede soprattutto grazie ai rapporti tra i due personaggi principali; è però evidente che il film sviluppa anche un rapporto di conflitto infra-personale, ovvero ognuno dei protagonisti è in conflitto anche con se stesso. Lo è il bandito Jesse James, il quale non riesce a vivere – ed apprezzare – la sua dimensione di mito ed è completamente incapace di fidarsi del prossimo, risultando alla fine, come quasi tutti gli “eroi”, solo. Lo è il “codardo” Robert Ford vittima dell'ossessione di mostrare a se stesso e a tutti gli altri di poter essere qualcuno. Ma sarà proprio questa sua voglia di dimostrarsi coraggioso a farlo ricordare da tutti come l'esatto opposto, ovvero il “codardo” che ha ucciso vilmente alla spalle Jesse James... e alla fine risulta evidente che i suoi sogni di gloria eterna sono stati soltanto un illusione come, tra l'altro, mestamente ci fa capire egli stesso in una delle sue ultime battute del film: “Jesse James era più grande di quanto si possa immaginare. Uno può cercare di avvicinarsi a lui, di voler essere insieme a lui, di voler essere come lui… ma finisce sempre che qualcosa manca”. Conclusione: ¿Quien puede matar una leyenda?
Post Scriptum: Brad Pitt per la sua interpretazione ha vinto la Coppa Volpi come miglior attore alla "Mostra del Cinema di Venezia". Sicuramente la sua è stata un'interpretazione notevole, ma io sono convinto che Casey Affleck avrebbe meritato il premio molto più del suo “più famoso” collega. La sua interpretazione nei panni del “codardo” Robert Ford è stata una delle migliori di tutto il 2007 e la sua mancata premiazione alla Mostra del Cinema – soprattutto se a discapito di Brad Pitt – non me la riesco proprio a spiegare... forse la codardia è stata punita ancora una volta... e questa volta ingiustamente!

domenica 18 ottobre 2009

CHE LA FINE ABBIA INIZIO (Prom Night, 2008) di Nelson McCormick.

La scelta di questa pellicola, a cui do l'onore di aprire il mio blog dedicato al cinema, penso che lascerà di gesso la maggior parte di chi legge questo articolo – sempre che qualcuno lo legga :) – per diversi motivi, il primo dei quali penso sia semplicemente perché nessuno la conosce... e per nessuno intendo proprio nessuno. In effetti anch'io prima di comprarla, questa “perla” cinematografica, non sapevo cosa fosse. Un altro motivo per cui questa decisione potrebbe sorprendere è che, di solito, quando uno apre un blog – o un sito – come prima recensione posta qualcosa di memorabile su un film di quelli che fanno dire “eeeehi, ma questo ne sa di cinema” o cose del genere... non so... un film della Nouvelle Vague, della New Hollywood o qualche “chicca” asiatica che fa tanto colto, e soprattutto fa tanto moda. Io invece ho deciso di partire con una pellicola sconosciuta e di cui ero consapevole che al 99% sarebbe stata pessima. Ma non per autolesionismo, l'ho fatto per un motivo specifico... tale pellicola è un remake, ovvero un rifacimento di una pellicola precedente... e il mio scopo era intavolare una discussione sui remake tanto in voga in questi ultimi anni. La scelta è ricaduta su questo film di Nelson McCormick principalmente perché l'originale Non entrate in quella casa (Prom Night, 1980) di Paul Lynch era un film mediocre. Se vi state chiedendo il come mai di una scelta del genere ve lo spiego subito: volevo togliermi la curiosità di vedere un rifacimento senza essere influenzato in nessun modo dal valore del film originale. Io sono convinto che la maggior parte di chi rifiuta i remake lo fa per due motivi, il primo è che essi vengono stroncati a priori perché fa molto “figo”... stesso discorso di prima, per dimostrare di essere colto, cinematograficamente parlando, ti deve piacere solo certo tipo di cinema, e un remake è un rifacimento quindi è indegno già in partenza; secondo punto, e ben più interessante, è perché li si confronta con l'originale... cosa facile e istintiva, ma controproducente, perché è veramente difficile – se non impossibile – che un rifacimento sia anche solo paragonabile all'originale. E soprattutto perché partire da questi presupposti non permette di essere pienamente obbiettivi nelle proprie valutazioni. Allora mi sono posto la seguente domanda: “ehi pippo, secondo te (ogni tanto mi capita di parlare da solo...) cosa succederebbe se al posto di un remake di un cult ti guardi il rifacimento di un film mediocre?” Ah, naturalmente poi mi sono anche risposto: “non lo so, però ci proverò”. E ci ho provato... perché credo veramente che guardare un film senza sentire il “peso” della pellicola a cui si rifà può essere di aiuto in caso di un remake... purtroppo questa volta mi è andata malissimo, Che la fine abbia inizio (Prom Night, 2008) è veramente un film pessimo, però almeno la mia valutazione è stata obbiettiva... anche perché niente, in questo specifico caso, avrebbe potuto salvare la pellicola di Nelson McCormick dalla meritatissima condanna con tutte le aggravanti del caso.
Ecco un film veramente inutile... remake di un film forse non così altrettanto inutile ma quasi, ovvero Non entrate in quella casa di Paul Lynch con la "Scream Queen" indiscussa degli anni '80 Jamie Lee Curtis. Io di principio, a differenza di molti altri, non sono contro il remake in se, ma sono contro l'eccessivo utilizzo di questo espediente da parte di Hollywood... anche se sono perfettamente conscio del fatto che essere innovativi in un genere così logoro, come è quello horror, è molto difficile! Proprio per quest'ultimo motivo ho accettato di buon grado i remake di questi ultimi anni, come, per esempio, quelli di Non aprite quella porta (The Texas Chainsaw Massacre, 1974) di Tobe Hooper e di Le colline hanno gli occhi (The Hills Have Eyes, 1977) di Wes Craven, rispettivamente ad opera di Marcus Nispel ed Alexandre Aja (a mio avviso, nuovo “enfant prodige” del genere in questione); in fondo l'attualizzazione di un cult vecchio vent'anni può avere le sue ragioni e i suoi effetti benefici: primo fra tutti, incuriosire e "tentare" coloro che non hanno visto la pellicola originale. Posso farvi un esempio in merito, il quale però uscirà dal campo che stiamo trattando, ovvero quello del remake nel senso più stretto del termine: dopo l'uscita di Kill Bill (Id., 2003) di Quentin Tarantino, Lady Snowblood (Shurayuki-Hime, 1973) di Toshiya Fujita, vecchio "exploitation" giapponese al quale il buon Quentin si è chiaramente ispirato per la sua pellicola, ha assunto fama di cult tanto da meritarsi pure una distribuzione italiana in un cofanetto a due dvd comprendente anche il capitolo secondo. Ovviamente sarebbe stato facile prevedere, che senza il film di Tarantino, Lady Snowblood sarebbe rimasto nel dimenticatoio e molto probabilmente per sempre. Il mio consiglio, per quanto riguarda i remake, è di cercare di guardarli e giudicarli per quello che sono effettivamente – anche se, come dicevo nell'introduzione, non è facile – e non accostandoli all'originale: il già citato Non aprite quella porta di Marcus Nispel è, a mio avviso, un film discreto, ma se stupidamente lo si confronta con quello di Tobe Hooper è ovvio che non si può fare a meno di massacrarlo. Dopo aver parzialmente difeso il remake - ma più come concetto che come film – non posso però non constatare che la maggior parte di essi sono film mediocri o addirittura pessimi: tra di essi è impossibile non citare il letale – per chi lo guarda – The Fog (Id., 2005) di Rupert Wainwright remake nell'omonimo cult di John Carpenter e Il prescelto (The Wicker Man, 2006), film con Nicholas "ho una sola espressione" Cage, rifacimento della pellicola con protagonista Christopher Lee.
Veniamo al film in questione finalmente... Che la fine abbia inizio è un film incredibilmente brutto, ridicolo – pure noioso – e mal recitato, che se non fosse per le protagoniste molto glamour e l'ambientazione tipicamente americana – festa di fine anno – molto probabilmente sarebbe facilmente confuso per una di quelle pseudo-pellicole "crucche" che "infestavano" qualche anno fa rai2 il sabato sera (alzi la mano chi non ha avuto al sfortuna, almeno una volta nella vita, di vedere Nel segno del giallo...) perché il film di Nelson McCormick è veramente di una povertà disarmante. Il regista, al suo esordio cinematografico ma già autore di diversi episodi di vari telefilm, ci propone una sorta di incrocio – tra l'altro mal riuscito – di un pessimo teen movie e un thriller/horror di serie Z... forse sarebbe meglio dire di serie Zzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzz... infatti fa veramente dormire! La storia è la seguente: Donna, un'adolescente, torna a casa una sera e scopre il padre e il fratello uccisi ed assiste, inoltre, al massacro della madre da parte di uno psicopatico che viene in seguito arrestato. Tre anni dopo ritroviamo la protagonista alle prese con la preparazione dell'importantissima festa di fine anno. Essa sta cercando, con difficoltà, di ricostruirsi una vita assieme agli amici ed al suo ragazzo Bobby, ma purtroppo per lei il passato non la vuole lasciare in pace, infatti chi ha compiuto quella strage è fuggito dal carcere e ha raggiunto l'hotel in cui sta celebrando proprio tale festa di fine anno, che ovviamente si trasformerà in un incubo (a dir la verità neanche più di tanto...). Punto e a capo. Mi è difficile scrivere di un film come questo perché raramente mi è capitata tra le mani una pellicola dove non ci sia nulla di buono, ma in questo caso è proprio così: assolutamente niente di Che la fine abbia inizio merita di essere salvato!!! Adesso "sputerò" – credetemi, dopo uno scempio del genere nessun termine è più adatto - qualche sentenza veloce perché il film non merita di più: lo psicopatico, interpretato – ??? – da Johnathon Schaech, penso sia il peggiore mai apparso su uno schermo cinematografico – ma anche televisivo –, ma anche gli altri interpreti sono incredibilmente pessimi... quasi quasi fanno rimpiangere gli attori dei film di Herbert Gordon Lewis (massimo rispetto per lui, inventore del gore, ma non per i suoi attori). Per non dubitare di ciò, guardatevi le facce che fanno quando vengono uccisi alcuni personaggi... ahahahah, da piangere dal ridere. Ma il problema non sono solo gli attori, anche i personaggi sono ridicoli, i poliziotti sono talmente ebeti che sembrano addestrati da Daffy Duck; i sei amici protagonisti – tre coppie – sono stereotipizzati al massimo: c'è la solita coppia in crisi, la solita coppia "sporcacciona" che pensa sempre e solo a quello e la solita coppia perfetta, stile “love boat”, che ovviamente è quella formata dalla protagonista e il suo ragazzo. Per quanto riguarda la storia in se, pollice verso anche in questo caso: nessun colpo di scena in 90 minuti scarsi, il film è come una linea retta e dopo cinque minuti si capisce già cosa succederà e come andrà a finire la vicenda. Lo stratagemma con cui lo psicopatico riesce a dileguarsi dall'hotel sorvegliato dalla polizia è veramente inenarrabile per scontatezza... vi giuro che quando l'ho visto, ho preso a testate il muro! Oltre alle abilità registiche e narrative, il regista Nelson McCormick deve avere dimenticato nel cassetto anche quelle riguardanti il gore, perché dire che gli omicidi siano poco ispirati è un eufemismo, essi sono la parte peggiore del film (ovvero non c'è limite al peggio...), e per una pellicola del genere non vi è peccato più grave! Di certo non avrebbero risollevato le sorti di un film troppo brutto per essere vero, però qualche bella uccisione efferata e ben filmata sicuramente avrebbe fatto ingoiare un po' più facilmente l'amarissimo boccone. Se proprio proprio la storia vi intriga virate la vostra attenzione sull'originale Non entrate in quella casa, mediocre pure esso, ma nettamente superiore al rifacimento. Conclusione: da evitare come la peste.