martedì 24 novembre 2009

BLACK DAHLIA (The Black Dahlia, 2006) di Brian De Palma

Circa un mese fa stavo leggendo “La faccia nascosta della luna” il nuovo romanzo di Carlo Lucarelli in cui l'autore traccia “una mappa per orientarsi nella leggenda nera che accompagna la vita, e la morte, di tante star della musica e del cinema”. In questo libro vi sono resoconti dettagliati di tutti i casi più misteriosi accaduti nel mondo dello spettacolo: la morte di Kurt Cobain, quelle alquanto strane di Marylin Monroe e di Jim Morrison, quella di Brandon Lee avvenuta sul set de Il corvo (The Crow, 1994), quella più recente di Heath Ledger e tantissime altre che non sto qui ad elencarvi. Tra tutte queste – più o meno famose – morti misteriose ce n'è una che mi ha profondamente colpito, di cui avevo già sentito parlare, ma della quale non conoscevo i cruenti particolari: l'efferato omicidio di Elisabeth Ann Short, la quale sarà ricordata da tutti come “Black Dahlia”. Cosa mi ha colpito di questa storia? Prima di tutto l'efferatezza del delitto di cui è stata vittima la Dalia Nera: il corpo è stato ritrovato troncato in due parti, la ragazza è stata picchiata con ferocia ed era piena di lividi, le budella sono state estratte completamente, due tagli profondi allargavano la bocca fin sotto le orecchie, e per finire essa è stata sodomizzata dopo la morte. L'altro motivo di interesse era dato dal fatto che nel 1987, da questo fatto di cronaca, James Ellroy aveva tratto un romanzo intitolato “Black Dahlia” appunto. James Ellroy è l'autore di un libro, “L.A. Confidential”, da cui Curtis Hanson ha ripreso la sua omonima pellicola con Russel Crowe e Kevin Spacey. L.A. Confidential (Id., 1997) è uno dei miei film noir preferiti e quindi il passo successivo è stato semplice: mi sono procurato il libro e me lo sono divorato in pochissimi giorni. Essendo, come ormai avrete capito, un appassionato di cinema, il passo seguente è stato ancora più semplice, anzi direi istintivo: mi sono procurato il film che Brian De Palma aveva tratto dal libro nel 2006. Il problema è che se apprezzi, in maniera particolare, il libro – come ho fatto io in questo caso – stai pur certo che rimarrai deluso dalla sua trasposizione cinematografica. Purtroppo questa è quasi una legge non scritta.
Brian De Palma è stato per anni uno dei miei registi preferiti. A farmi “innamorare” di questo autore americano sono stati soprattutto tre suoi “gangster movie” i quali a mio avviso sono la summa del genere negli ultimi trent'anni: Scarface (Id., 1983), Gli intoccabili (The Untouchables, 1987) e Carlito's way (Id., 1993). Nonostante queste tre “perle”, far coincidere la carriera di questo eclettico regista ad un solo determinato genere sarebbe sbagliato, perché Brian De Palma ha dimostrato, sin dai suoi esordi, di sapersi muovere con abilità in tutti i generi cinematografici: dall'horror con Carrie, lo sguardo di satana (Carrie, 1976), al thriller con Fury (Id., 1972) e Vestito per uccidere (Dressed to Kill, 1980) fino al cinema di guerra/denuncia con Vittime di guerra (Casualties of War, 1989). Ma dopo la carota, purtroppo c'è sempre il bastone... e siccome soffro a fare certe affermazioni, lo dirò in maniera veloce, ma non – ahimè – indolore: Brian De Palma non ne azzecca più una da quasi vent'anni, ovvero dal già citato Carlito's way. Dopo di esso, il regista del New Jersey ha diretto solo film mediocri come Mission: Impossible (Id., 1996), Omicidio in diretta (Snake Eyes, 1998), Mission to Mars (Id., 2000), Femme fatale (Id., 2002) e, anche la pellicola in questione, Black Dahlia (The Black Dahlia, 2006) non sfugge dal baratro dell'anonimato artistico in cui sembra essere caduto l'autore. Parrebbe però che Redacted (Id., 2007), la sua ultima fatica registica, sia tutt'altro che malaccio. Il film si basa su un fatto di cronaca, ovvero lo stupro di un'adolescente da parte di alcuni soldati americani in Iraq: purtroppo non avendolo visto non posso esprimere un parere a proposito, ma spero vivamente che il buon vecchio Brian possa, se non tornare ai fasti di un tempo, almeno rialzarsi dopo le ultime fragorose cadute.
Ecco brevemente la trama di Black Dahlia. Los Angeles 1947, Bucky Bleichert e Lee Blanchard, due ex pugili entrambi ora poliziotti, si ritrovano invischiati in uno dei più brutali omicidi mai avvenuti nella “città degli angeli”: quello di Elisabeth Ann Short, giovane ragazza arrivata, come tante altre, ad Hollywood in cerca di fortuna, la quale sarà soprannominata, per il suo modo di vestirsi – ma anche per la sua passione per il film La dalia azzurra (The Blue Dahlia, 1946) –, dai giornalisti la Dalia Nera.
Voglio essere chiaro sin dall'inizio, Black Dahlia non è pessimo ed, in confronto ai più recenti lavori del regista, rappresenta comunque una piccola risalita... diciamo un primo passo di una lunga riabilitazione. Però non posso neanche dire che mi è piaciuto, molto probabilmente se non avessi conosciuto il libro da cui è tratto, l'avrei apprezzato un po' di più, ma comunque rimarrebbe sempre un lavoro senza infamia e senza lode, con pochi pregi e molti difetti. Ma il vero problema è, appunto, il libro: se hai letto l'opera letteraria di James Ellroy non puoi accettare di buon grado il film di Brian De Palma a priori; non perché lo sceneggiatore Josh Friedman si prenda chissà quali libertà nell'adattare il romanzo per il cinema, ma perché la pellicola sembra un riassunto fatto male. Sono perfettamente consapevole che non è un'impresa facile trasformare un libro in una buona sceneggiatura, che qualche parte va assolutamente tagliata e che quello che funziona sulla carta non è detto che funzioni su uno schermo, perché linguaggio letterario e linguaggio filmico sono diversissimi ed hanno ognuno le proprie regole, però certe decisioni non me le riesco proprio a spiegare. Uno. L'opera di James Ellroy è ambientata a Los Angeles come il film, ma in quest'ultimo non c'è praticamente quasi nessun riferimento ad Hollywood. What?? Mi chiedo come possa essere possibile una scelta del genere, il romanzo è praticamente incentrato su questo mondo “malato... lussurioso... esagerato...” ma nella pellicola di ciò non vi è traccia. Ma non parlo solo della trama, in cui vi è solo qualche breve accenno al mondo del cinema, ma soprattutto della caratterizzazione ambientale: girare un film su Hollywood, o comunque ambientato in quel mondo, senza Hollywood è veramente un paradosso. Due. Eliminare completamente la sempre più crescente ossessione che il protagonista, Bucky Bleichert, ha nei confronti della Dalia Nera. A mio avviso errore imperdonabile, perché in pratica il romanzo è basato sue questo: su come un caso di cronaca, così efferato e sconcertante, e con protagonista una giovane donna bella e ammaliante, abbia sconvolto la vita di chi ne è rimasto invischiato. Il fatto è che nel film di Brian De Palma, per semplificare la narrazione, vengono eliminati quasi tutti i colleghi di Bucky e Lee, compresi i due Vogel – padre e figlio – che nel romanzo hanno un ruolo chiave: la soffiata che il protagonista fa nei loro confronti, che porterà all'arresto di uno e al suicidio dell'altro, è l'inizio del declino della carriera di Bucky Bleichert e della sua ossessione per la Dalia Nera. Inoltre, non vi è nessun accenno all'attrazione sessuale che prova il protagonista per Elisabeth Ann Short e che lo spinge tra le braccia dell'aristocratica Madeleine Sprague. Tre. L'eccessiva semplificazione di alcuni personaggi chiave, in primis, Lee Blanchard: nel film non si capisce perché egli è così sconvolto dall'omicidio Short, mentre nel libro la spiegazione c'è ed è l'omicidio della sorella di cui egli si sente responsabile. Stesso discorso per il suo rapporto con il criminale Bobby DeWitt, il quale viene a malapena accennato. Anche il personaggio di Kay Lake perde molto appeal nel passaggio da libro a pellicola, infatti in quest'ultima essa ha un ruolo del tutto marginale. Il problema qui è dettato dal fatto che nel film viene tagliata completamente la parte del matrimonio tra Kay e Bucky. Eliminando questo “blocco” di romanzo, praticamente colei che era una figura chiave dell'opera di Ellroy diventa una sorta di anonima comprimaria. Tra l'altro, altra nota stonata, il “triangolo non triangolo” tra i tre protagonisti (Bucky Bleichert, Lee Blanchard e Kay Lake) non sembra interessare minimamente Brian De Palma, il quale preferisce concentrarsi su altri eventi.
Veniamo ora alle note positive: per prima cosa le scenografie di Dante Ferretti; esse, pur essendo poco incentrate su Hollywood, sono veramente stupefacenti. Sembra veramente di essere tornati indietro nel tempo, all'interno di uno di quei noir classici che andavano tanto di voga negli anni cinquanta. Secondo punto, la fotografia di Vilmos Zsigmond giustamente cupa come deve essere la fotografia di un film del genere. Infine, la regia di Brian De Palma. Il regista del New Jersey avrà pure perso l'ispirazione, però con la macchina da presa ci sa veramente fare. Guardare la scena del ritrovamento del cadavere per convincersi di ciò.
Ultima nota sugli attori. Onestamente la scelta del cast non mi sembra troppo azzeccata: Josh Hartnett, oltre ad avere qualche dubbio sulle sue capacità attoriali, è troppo bello per la parte di Bucky Bleichert, che nel libro viene descritto come una persona buffa per colpa di due “dentoni”; Aaron Eckahrt non riesce a dare spessore al personaggio di Lee Blanchard, ma in questo caso forse la colpa è anche della sceneggiatura; Scarlett Johansson – Kay Lake - è a mio avviso completamente fuori ruolo; va un po' meglio con Hilary Swank nella parte di Madeleine Sprague, ma sinceramente da un'attrice vincitrice di due premi Oscar ci si può aspettare di più. Conclusione: Black Movie.

martedì 17 novembre 2009

2000 MANIACS (Two Thousand Maniacs, 1964) di Herschell Gordon Lewis / 2001 MANIACS (Id., 2005) di Tim Sullivan

Nuovo post e novità assoluta! Due film al prezzo di uno... e pensare che non siamo neanche in periodo di saldi! Vedendo la lunghezza dei miei elaborati precedenti, non so se per voi è un bene o un male... comunque non preoccupatevi, il mio obbiettivo non è quello di “parlarvi” di due film, ma fare un discorso univoco prendendo spunto da entrambe le pellicole. Come si potrà ben capire dal titolo dei due film, ovvero 2000 Maniacs (Two Thousand Maniacs, 1964) di Herschell Gordon Lewis e 2001 Maniacs (Id., 2005) di Tim Sullivan, essi sono collegati; più esattamente il secondo è il remake del primo. Ed è su questo che voglio focalizzare la mia attenzione: su come un soggetto venga “modernizzato” e reinterpretato per renderlo fruibile agli spettatori dei nostri tempi. Perciò non mi resta che darvi il benvenuto al mio personale “Grindhouse”... Ma cosa diavolo è un Grindhouse??? “A Grindhouse is an American term for a theater that mainly showed exploitation films. [...] Grindhouse films are also referred to as exploitation films. Grindhouses were known for non-stop programs of B movies, usually consisting of a double feature where two films were shown back to back. [...] Grindhouse films was dominated by explicit sex, violence, bizarre or perverse plot points, and other taboo content...”. Si spengano le luci in sala e si dia inizio allo show...
Pellicola prodotta in grande povertà di mezzi, realizzazione grezza e approssimativa, inquadrature – spesso sbagliate... – fisse con pochi movimenti di camera, interpretazioni ridicole – la protagonista, Connie Mason, è un'ex coniglietta di Playboy – che fanno accapponare la pelle, musica country delirante e colonna sonora fastidiosa, sangue che sembra ketchup... eppure 2000 Maniacs è un cult assoluto... un film che tutti dovrebbero aver visto almeno una volta. Mamma mia, che lavoro leggendario girato da un regista altrettanto leggendario, H. G. Lewis soprannominato “the wizard of gore”, inventore e maestro indiscusso del genere “splatter” - dal verbo “to splat” che sta ad indicare lo schizzare del sangue – e creatore di pellicole troppo “tutto” per poter essere raccontate... delle vere e proprie delizie insomma! 2000 Maniacs è il secondo film diretto dal regista, dopo il trashissimo Blood Feast (Id., 1963): quest'ultimo è sicuramente meno riuscito e ancora peggio realizzato della pellicola in questione, ma è stato una grande scommessa vinta al botteghino... infatti dopo l'inaspettato boom di tale film H. G. Lewis avrebbe dichiarato: Hey, se questo filmaccio di merda ha fatto un mucchio di quattrini, cosa succederebbe se ne facessimo uno veramente buono?, e da qui nasce l'idea di girare 2000 Maniacs, il quale narra le vicende di tre coppie “yankee”, ovvero nordamericane, che finiscono “per sbaglio” a Pleasant Valley – “la valle del piacere”, nome che è tutto un programma –, uno sperduto paesino del profondo sud degli Stati Uniti. Essi giungono in tale luogo proprio nel periodo in cui si commemora il centesimo anniversario di un avvenimento particolarmente importante per la piccola cittadina e, proprio per questo motivo, vengono accolti come ospiti d'onore di tali festeggiamenti; il problema è che i sei ignari turisti non sanno che tutti gli abitanti di Pleasant Valley sono dei folli maniaci – da qui il titolo del film... – pronti, più che a far festa, a fargli “la festa”... e che festa... una gran festa con fiumi di emoglobina rossa!
Questo film è un “must”, e non mi stancherò mai di dirlo... è un insieme incredibile di scene cult e trash degne di entrare nella storia del cinema di serie B... ma la cosa che colpisce di più è il clima che si respira in tutta la pellicola: gioviale, burlesco, ci sono efferate uccisioni e tutto sembra una farsa, un carnevale rosso sangue... geniale, nient'altro da dire! Il regista è stato capace di inserire situazioni tipiche dei più violenti horror in una pellicola che a guardarla con attenzione sembra una commedia, perché essa ha veramente un impianto da commedia. Vedere tutta la popolazione divertirsi da matti quando i turisti vengono trucidati nei modi più “strambi” è qualcosa che non ha prezzo... per tutto il resto c'è Herschell Gordon Lewis: una ragazza viene legata per mani e per piedi a quattro cavalli, il risultato ve lo potete immaginare da soli... un altro sventurato viene buttato giù da una collina dentro una botte chiodata – rivisitazione del supplizio di Attilio Regolo – finendo ben infilzato in ogni dove... ma il climax di humour nero si raggiunge quando una giovane donna viene legata a terra con sopra un'enorme pietra e i popolani devono cercare di colpire un bersaglio per far cadere il macigno! Vedere la popolazione lanciare la pallina da baseball per colpire il bersaglio e intanto divertirsi in maniera spropositata è qualcosa che non ha prezzo... per tutto il resto c'è, sempre lui, Herschell Gordon Lewis... giù il cappello e solo applausi!!!
2001 Maniacs segue quasi linearmente il plot della pellicola originale... la storia subisce pochi cambiamenti e per niente influenti sul proseguo della vicenda. Però il film è stato ovviamente riadattato, o come dicevo nell'introduzione modernizzato, in modo da essere “vendibile” ai giorni nostri: il problema è che questi ammodernamenti sono le parti peggiori di un film comunque godibile e divertente. Tra l'altro il remake è prodotto anche da Eli Roth - regista di Hostel (Id., 2005) - il quale appare all'inizio in un cameo veramente delirante! Come quasi ogni horror post Scream (Id., 1996) anche in questo lavoro di Tim Sullivan largo spazio ad un cast poco più che adolescenziale... non mi soffermo sulle interpretazioni perché sarebbe un po' come sparare sull'ambulanza. Tra gli attori ne cito solo uno, anche perché è l'unico che conosco: nella parte di Buckman, psicopatico sindaco della cittadina, c'è Robert “Freddy Kruger” Englund, il quale domina, in lungo e in largo, tutto il film con la sua interpretazione completamente fuori dalla righe. Mi ricordo di un film di qualche anno fa, di cui ora mi sfugge il titolo, il quale venne anticipato da un lancio pubblicitario che prometteva molto sangue: “Oh yes, there will be more blood”. Ecco, questo slogan calzerebbe a pennello anche per la pellicola in questione; peccato che sangue non sia per forza sinonimo di tensione: infatti sotto questo aspetto il film langue molto... insomma ci troviamo di fronte a parecchie situazioni cruente ma per niente tese... scordatevi scene al cardiopalma alla Saw – l'enigmista (Saw, 2004) per intenderci, ma questo non è per forza un male, in quanto il regista cerca di ricreare la “spensierata” atmosfera - non riuscendovi in pieno, a dir la verità - di 2000 Maniacs. Veniamo al sangue... 2001 Maniacs è molto più violento e sanguinolento del film che riprende, ma vi è da dire che tra un'opera e l'altra ci sono più di quarant'anni di differenza e perciò l'effetto che fece il film di H. G. Lewis ai suoi tempi - il suo primo lavoro fu uno shock incredibile - non è nemmeno paragonabile al (non) effetto che fa, ai nostri giorni, il suo remake. Tra le scene più “forti” del rifacimento vi è sicuramente un'evirazione a morsi, mentre viene riproposta, con molti più dettagli truculenti, la scena dei cavalli: essa è l'unica uccisione identica in tutti e due i film.
Dicevo in precedenza che il “fattore restyling” è la parte peggiore del film... analizziamo questi cambiamenti un po' più nel dettaglio. A sostituire le tre coppie “qualunque” della pellicola originale, le quali a mio avviso funzionavano benissimo, ci sono questa volta otto personaggi: tre ragazzotti in cerca di sesso - e cosa se no?! -, un altro trio formato da due “gnocche” - potevano mancare?! certo che no - e un omosessuale, ed infine una coppia di “cattivi ragazzacci” formati da un nero e dalla sua “bad girl” asiatica - viva la par condicion -. Già con queste scelte il film, a mio parere, perde molto, perché l'humour e il clima da farsa che pervadeva 2000 Maniacs qui si trasforma in una serie di battutacce e situazioni tipiche da commedia sulla falsa riga di American Pie (Id., 1999). C'è da far notare però, in difesa di Tim Sullivan, che quando c'è da calcare la mano egli non si tira certo indietro: dopo una sfilza di battute a doppio senso sull'omosessualità della “checca” del gruppo, il regista gli cuce addosso una fine ad hoc... infilzato da un lungo “spiedone” che ovviamente lo penetra da dietro... e che si fottano i ben pensanti... più “politically uncorrent” di così! Ma la metafora sessuale non si ferma certo qua. Dopo i primi trenta minuti in cui c'è una grande abbondanza di “tette e culi” generosamente offerti dalle attrici - ??? - finalmente il film prende la piega giusta... quella rosso sangue! È interessante notare lo stretto rapporto che vi è tra sesso e morte in questo remake: poco più di dieci anni fa, in Scream, durante un party Randy, un ragazzo cinefilo appassionato di horror, elenca le regole per sopravvivere in ogni film dell'orrore. Tra di queste, la prima era “Non fare sesso”, evidentemente però i protagonisti di 2001 Maniacs non erano a conoscenza di questo decalogo, infatti essi vengono quasi tutti trucidati durante rapporti più o meno amorosi: la prima vittima spera di appartarsi con il bello del villaggio, ma si ritrova legata a quattro cavalli pronti a correre in direzioni opposte... un ragazzo, convinto di aver fatto centro con la milf - mother I'd like to fuck - di turno, viene “invitato” a bere dell'acido proprio durante un amplesso rimediando qualcosina in più di un piccolo bruciore di stomaco... lo sfigato del gruppo rimane vittima di un rapporto orale letale... e a ben vedere la metafora sesso/morte continua con la sodomizzazione dell'omosessuale grazie ad uno “spiedone”, il quale è chiaramente una rappresentazione fallica.
Ultima nota sul finale di entrambe le pellicole. I due “the end” sono molto simili ma forse, io preferisco il finale del film del 2005 con il colpo di scena finale, anche se oramai quasi tutti i prodotti horror hollywoodiani finisco in tale modo perciò non è che sia proprio quel gran colpo di scena. Il finale del lavoro di H. G. Lewis è più di impianto classico, bisogna sempre considerare però che il film ha più di quarant'anni sul groppone. Alla fine comunque sono due film, a mio avviso, da vedere: il primo è un mio “personal cult” e non posso che consigliarlo vivamente, mentre per quanto riguarda il suo remake... sicuramente ci sono modi migliori di passare meno di due ore... ma altrettanto certamente ce ne sono anche di molto peggiori! Conclusione: two film is megl che one.

giovedì 12 novembre 2009

PROSPETTIVE DI UN DELITTO (Vantage Point, 2008) di Pete Travis

Questo mio nuovo post non è come tutti gli altri... non è una nuova recensione, diciamo che è più un buttar giù qualche riflessione veloce su un film. Ieri un mio caro amico, compagno di battaglie sotto le plance e assiduo lettore del mio blog, mi ha chiesto cosa ne pensavo di Prospettive di un delitto (Vantage Point, 2008), una pellicola che tra l'altro non ho visto neanche troppo di recente... comunque spero di poter fare un'analisi almeno accettabile.
Il film di Pete Travis è incentrato su un attentato al presidente degli Stati Uniti in visita in Spagna, durante un discorso pubblico tenuto a Salamanca. Sfondo della vicenda è quasi esclusivamente la Plaza Major splendidamente ricostruita a Città del Messico. L'intreccio si sviluppa attraverso quello che hanno visto otto sconosciuti, protagonisti volontari ed involontari di questo delitto: praticamente lo spettatore è “vittima” di un gioco ad incastro architettato dal regista, il quale fa rivedere la scena dell'assassinio da diverse soggettive aggiungendo ogni volta una nuova componente del puzzle.
Prospettive di un delitto è, senza dubbio, un omaggio a Rashomon (Rasho-mon, 1950) di Akira Kurosawa, uno di quei lavori cinematografici che tendono a fare (la) storia (del cinema) ed essere abbastanza frequentemente omaggiati... ma a me sinceramente ha ricordato anche 11.14 – destino fatale (11.14, 2003) di Greg Marcks un thriller/horror in cui la vita di alcuni sconosciuti si intrecciava, a causa di avvenimenti apparentemente non legati tra loro, in un preciso orario: 11.14 p.m.
Come ho detto in precedenza, la pellicola l'ho vista un po' di tempo fa, ma mi ricordo che non mi aveva convinto: Prospettive di un delitto partiva da una buona idea di base ma che in seguito è stata sviluppata male e la seconda parte del film era, a mio avviso, imbarazzante... il che mi ha fatto sorgere il dubbio di trovarmi semplicemente davanti ad un esercizio di stile da parte di un giovane regista al suo esordio. Questo perché la parte iniziale, basata completamente sui flashback dei protagonisti, in parte funziona, anche se il meccanismo alla lunga stanca, ma è dopo questa prima parte che la pellicola di Pete Travis precipita clamorosamente. Il problema principale del film è però che la storia che narra è trita e ritrita, soprattutto dopo l'11 settembre 2001, giorno in cui non solo la vita di tutti gli americani è cambiata in maniera drastica, ma anche il loro modo di vedere il cinema ne è uscito modificato, in primo luogo quello d'azione: gli attentati terroristici sono entrati prepotentemente nella vita del popolo statunitense e il cinema da quel momento si è proposto come un “salvagente” a cui aggrapparsi a discapito anche della verosimiglianza della situazione e dello stesso svilupparsi di essa; l'importante era – ed è – dare la speranza – e la certezza – allo spettatore che il “male” per antonomasia possa essere vinto. Naturalmente la vittoria degli USA passa sempre attraverso uomini “tutti d'un pezzo”, ancora meglio se con un avvenimento problematico nel proprio passato, pronti a dare la vita per il prossimo: in questo caso è Dennis Quaid ad offrire, in maniera non tanto convinta, il proprio volto all'eroe di turno. Troppo di già visto in Prospettive di un delitto per poter coinvolgere veramente lo spettatore. Anche gli stessi protagonisti sono stereotipizzati al massimo: c'è il solito eroe turbato da un qualche cosa del suo passato, il solito traditore della patria, il solito ex-terrorista pentito, il solito ricattato costretto a fare quello che non vuole, il solito eroe involontario e i soliti innocenti, meglio se bambini... la solita solfa insomma! Personalmente non ho apprezzato neanche la figura del Presidente degli Stati Uniti veramente troppo troppo buonista... io non sono uno di quelli che dicono “americani bastardi” però un Presidente così è troppo anche per lo schermo cinematografico: alla fine risulta non credibile e ridicolo. Sicuramente è interessante l'idea iniziale dei flashback e la realizzazione tecnica è indiscutibilmente di alto livello, ma il gioco ad incastro è stato tirato troppo per le lunghe: vedere per cinque o sei volte lo stesso avvenimento anche se da prospettive diverse alla fine “rompe” e a questo poi si deve aggiungere che la snodarsi finale della vicenda è talmente veloce e approssimativo da sembrare un riassunto, e per di più, a tratti inverosimile. Incredibilmente pessima l'interpretazione di Forest Whitaker, uno degli attori più enigmatici della storia del cinema, capace di alternare interpretazioni eccelse, come quella per L'ultimo re di Scozia (The Last King of Scotland, 2006) che gli è valsa un premio Oscar come Miglior Attore, ad interpretazioni imbarazzanti come quella del film in questione.
A mio avviso non è un film da buttare completamente però è una gran occasione persa.

sabato 7 novembre 2009

CONDUCT ZERO (Pumhaeng Zero, 2002) di Cho Keun-Sik

Conduct Zero (Pumhaeng Zero, 2002) di Cho Keun-Sik è un film realizzato in Corea del Sud nel 2002 e presentato al “Far East Film” di Udine l'anno successivo. Per chi non lo sapesse il “Far East Film” è un festival, inaugurato nel 1999, interamente dedicato al cinema asiatico: esso è stato definito “la più ricca rassegna di cinema dell'estremo Oriente in Europa”. Il festival, oltre a ospitare le più recenti produzioni del cinema orientale, dedica ogni anno retrospettive specifiche su queste cinematografie sconosciute ai più. Tutto questo per dire come è strano il mondo... abbiamo una delle più importanti manifestazioni sul cinema d'Europa e pochissime persone ne sono a conoscenza, mentre del “Festival internazionale del film di Roma”, spocchiosa imitazione di rassegne cinematografiche ben più importanti, se ne occupano, giornalmente, tutti i telegiornali... ma la cosa più triste è che essi ne parlano solamente perché sta per arrivare la “coppia dell'anno” Clooney-Canalis... come direbbe Pino Scotto: “Vergogna... questa è l'Italia... puahh... – sputo! – parlate piuttosto di questi giovani che non trovano lavoro”...
L'opera prima del regista Cho Keun-Sik è stata, in patria, una vera e propria sorpresa al botteghino, dove è riuscita persino a tenere testa a Il signore degli anelli – Le due torri (The Lord of the Rings – The Two Towers, 2002), capitolo secondo della trilogia realizzata da Peter Jackson. Conduct Zero è una commedia, del genere di formazione, molto strana, in grado di passare con disinvoltura da situazioni paradossali, diciamo “da manga”, a scene più realistiche di cui alcune anche abbastanza cruente, soprattutto se confrontate con gli standard soliti di una commedia. L'intera pellicola verte intorno alla figura di Joong-pil, un “bullo”, re indiscusso della scuola superiore che frequenta grazie al suo pugno leggendario. Tutto fila liscio finché la sua cotta per una ragazza diligente, completamente diversa da lui, e l'arrivo di Sang-mahn, un altro giovane teppista, combattente formidabile grazie al suo coltello, metteranno a dura prova il suo trono di re. A questo punto il “nostro eroe” sarà costretto a dover scegliere tra l'amore e il rispetto... perché entrambi non sarà possibile ottenerli.
Io non sono un'amante delle commedie, anzi di solito le trovo scontate e noiose ed evito di guardarle: in tutta sincerità, preferisco quel cinema, che per un motivo o per un altro, ti tiene incollato alla sedia. Soprattutto, ho un'avversione per le commedie americane di “nuova generazione”, sullo stile di American Pie (Id., 1999) per intenderci, le ho sempre considerate stupide e per niente divertenti: tutta quella scorrettezza “politically correct” mi irrita – e non poco – ogni volta che ho la sfortuna di vedere una pellicola del genere. Considerazione personale: io non sopporto i film che non osano! Se una commedia – o qualsiasi altro genere di film – vuole essere “politically uncorrect” che lo sia fino in fondo. Nella mia recensione precedente ho accennato a 8 mm – omicidio a luci rosse (8MM, 1999): ecco, esso è l'esempio appropriato per spiegare quello che voglio dire. Il film di Joel Schumacher tratta un argomento di quelli che scottano – gli “snuff movie”, pellicole nelle quali le persone vengono uccise veramente dopo essere state torturate e violentate -, ma il regista newyorkese è un bluff... e il film è una “fuffa”. Joel Schumacher vorrebbe farci credere di essere davanti ad un “nasty movie” (ovvero un film cattivo, sporco e scorretto), ma nel momento clou quando c'è da dare la stilettata finale, perciò osare di più – appunto... –, ritira in maniera ridicola la mano, banalizzando e rendendo stupidamente innocuo un argomento, già di per se trattato in maniera superficiale, che meriterebbe un ben più approfondito sviluppo. Comunque, tornando alla commedia americana, secondo me il problema principale è che alla fine sono sempre le stesse situazioni, al limite del “pecoreccio”, ripetute all'infinito... a proposito di “pecoreccio”, c'è stato un periodo che mi sono interessato/appassionato alle italianissime “commedie scollacciate” degli anni settanta, ma è stato solo un fuoco di paglia, per mia fortuna. Però devo dire che le commedie orientali invece – preciso che non ne ho viste tantissime –, pur non facendomi impazzire, un po' mi affascinano... sarà forse per quel loro strano “sense of humour” che alla fine non è che si comprenda benissimo o per quelle situazioni, al limite del paradosso, che sembrano più adatte ad un “anime”, ovvero un cartone animato giapponese, piuttosto che ad un film vero e proprio, però devo ammettere che ogni tanto qualche sorriso convinto me l'hanno strappato. Mi riferisco in particolar modo ai film di Stephen Chow che sono arrivati anche in Italia: Shaolin Soccer (Siu Lam Juk Kau, 2001) e Kung Fusion (Kung Fu, 2004). Tra l'altro il primo film – consiglio spassionato – se potete, guardate la versione originale sottotitolata, perché quella italiana è scandalosa... oltre ad avere un doppiaggio ridicolo fatto da calciatori famosi (più o meno...) sotto effetto di alcolici – almeno spero per loro che fosse così – è stata inspiegabilmente tagliata: mancano all'appello più di venti minuti. Non è solo una questione di minuti mancanti, il fatto è che questi tagli hanno stravolto il senso della pellicola.
La commedia di Cho Keun-Sik è un film godibile, niente di eccezionale, ma comunque ben orchestrato dal regista. La pellicola è ambientata nel mondo delle High School coreane, e già questo è abbastanza per farci capire che il film tratterà, in particolar modo, il tema della violenza giovanile. Qui mi tocca fare una precisazione: Conduct Zero è ambientato negli anni ottanta e durante quegli anni le scuole coreane erano pervase da molta violenza. É perciò importante capire come in esse, spesso la “gerarchia” tra gli studenti fosse dettata dal valore di quest'ultimi nel combattimento, e come il più forte studente della scuola fosse una sorta di “re” al suo interno. Fa specie sentire che, come una delle cause scatenanti questa esplosione di violenza giovanile nelle scuole, venga indicato “sua Maestà” Bruce Lee: infatti parrebbe che i giovani di quell'epoca fossero ossessionati dalla figura di invincibile combattente che i film del “piccolo drago” dipingevano, tanto da generare una sorta di emulazione di massa. Il cinema sud-coreano è sempre stato molto attento a questo fenomeno di bullismo all'interno delle proprie scuole ed infatti nella maggior parte delle pellicole prodotte i giovani vengono dipinti come giovani teppisti – ma spesso anche come veri e propri “giovani gangster” – inclini all'utilizzo della forza fisica. A proposito di questo si possono fare due considerazioni: la prima è che spesso nelle pellicole, compresa Conduct Zero, i ragazzi delle scuole coreane sono divisi in bande e sono frequentissimi scontri tra esse soprattutto per motivi futili. Seconda considerazione: da questa rappresentazione della violenza giovanile non vengono escluse le ragazze. Nei film sud-coreani anch'esse si riuniscono in bande e sono molto inclini alla violenza. In Conduct Zero vediamo uno scontro tra una banda maschile e una femminile come se fosse la cosa più normale al mondo: ovviamente i boys le danno di santa ragione alle girls... forse in Corea del Sud il detto che dice “le ragazze non si toccano neanche con un fiore” non esiste! Comunque la violenza è presente anche nel film di Che Keun-Sik in cui, attraverso le avventure/disavventure del protagonista Joong-pil, il regista vuole farci capire come è difficile e complicato essere adolescenti nel proprio paese: ma il discorso può essere benissimo esteso a tutto il mondo. Il film essendo a tutti gli effetti una commedia non può trattare – anche se in maniera ironica – solo il tema della violenza giovanile ed infatti esso si intreccia con argomenti più consoni al genere come l'amore e l'amicizia: il primo bacio tra Joong-pil e Min-hee è tecnicamente realizzato in maniera impeccabile. Il regista attraverso continui stacchi della macchina da presa prima sul volto dell'uno poi sul volto dell'altro, con i due innamorati che aprono gli occhi per sbirciare a turno, riesce bene a trasmettere quel senso di insicurezza e fragilità emotiva che li pervade in quel momento. Però quello che colpisce maggiormente è il senso di disagio dei ragazzi sud-coreani che la pellicola trasmette: essi sono quasi tutti ragazzi in lotta con se stessi e con il mondo intero che vedono nella supremazia sugli altri l'unico motivo di rivalsa. Comunque il suo merito principale è stato quello di aver saputo amalgamare situazioni divertenti e paradossali con argomenti ben più seri e non di poco conto, ma senza mai calcare la mano ne sul lato comico ne su quello drammatico: tanto sono divertenti e fumettistici gli scontri all'inizio della pellicola – combattimenti che fanno il verso a Matrix (The Matrix, 1999) – tanto è violento e crudo il duello finale. In questo modo Conduct Zero riesce a toccare diversi temi che vanno dal disagio giovanile, appunto, al primo amore, senza tralasciare magari altri argomenti, i quali però vengono solo accennati come per esempio la pornografia: divertentissima la scena in cui Joong-pil cerca di rifilare dei disegni pornografici a due ragazzini, ma essi non li vogliono acquistare perché cercano esclusivamente disegni con Topolino e Minnie.
Devo dire che, dopo quest'attenta analisi/riflessione, ho accantonato anche i pochi dubbi che la visione della pellicola mi aveva lasciato e perciò mi sento di consigliare questo film a chi ha voglia di vedere qualche cosa di diverso dal solito o si voglia avvicinare al cinema orientale senza particolari difficoltà o patemi d'animo. Conclusione: profumo d'Oriente.