martedì 26 gennaio 2010

H2ODIO (Hate 2 O, 2006) di Alex Infascelli

Partiamo subito dalla particolarità principale di questa pellicola: H2Odio (Hate 2 O, 2006) non è stato prodotto per essere distribuito al cinema, infatti il suo slogan di lancio al momento dell’uscita era «dal 3 maggio in nessun cinema». Il terzo lavoro del regista Alex Infascelli è stato realizzato in previsione di una sua futura uscita direttamente in edicola: il film realizzato in digitale a basso costo viene pensato solo per la distribuzione in dvd abbinata ad un noto settimanale ovvero L’espresso, formula questa che costituisce un’assoluta novità in Italia. Il regista interrogato su questa “anomalia” produttiva ha così giustificato la scelta: «Abbiamo avuto l'idea di evitare i normali canali di distribuzione perché la logica della sala cinematografica non rappresenta più il mio, il nostro, modo di vedere le cose. L'edicola oggi è il vero drugstore. Il solo posto dove si compra e si trova tutto. Dai libri ai giocattoli. Il salto dall'idea alla scelta del gruppo editoriale adatto a realizzarla è stato breve, direi automatica». Il regista romano prosegue la sua riflessione lanciando pesanti accuse al sistema produttivo del cinema italiano: «Fino ad oggi un film passava nelle sale, poi in TV ed in Home Video. Oggi questo ciclo non funziona più e quindi era ora di invertirlo. E io l’ho fatto, grazie al Gruppo Espresso. Ma per capire bene devo raccontare un po’ la mia storia. Il mio primo film l'ho fatto con Cecchi Gori, costi di produzione pazzeschi, promozione da star. Ora, il nostro sistema non permette ad un autore di essere veramente sé stesso, è tutto un marketing e marchi. Quando mi hanno chiamato per Il siero della vanità, con un cast notevole (Margherita Buy, Valerio Mastrandrea, Francesca Neri) volevano solo il mio nome e non il mio cinema. Io ed Ammaniti (autore della storia originale), bella coppia. Poi però ecco l'assurdo ibrido: hanno tarpato le ali sia a lui per la sceneggiatura che a me per la regia. Non mi hanno fatto essere quello che ero. Io cercavo un modo per staccarmi da questo meccanismo. Una sera al ristorante, arriva un ragazzo marocchino che vendeva film pirata ed ho cacciato un urlo: ecco, voglio farmi distribuire da lui! Dovevo solo trovare una strada legale. E la soluzione era proprio l'edicola, la vera piazza culturale italiana, il luogo di ritrovo, di scambio. Poi vedremo, probabilmente ci sarà un passaggio in sala. Ma la vera trovata è proprio questa». Forse Alex Infascelli è stato ispirato dalla scelta di Steven Soderbergh, il cui penultimo film, Bubble (Id., 2005) è uscito direttamente al cinema, in dvd e sulla televisione via cavo. Altro caso singolare fu quello di The Interpreter (Id., 2005), film con Nicole Kidman e Sean Penn – mica pizza e fichi… – che mentre era ancora in sala, poteva già essere visto sui telefonini della 3. A distanza di anni possiamo dire che questi singolari esempi non hanno avuto un gran riscontro, nonostante abbiano fatto parlare di sé, e rimangono alla fine solo dei casi isolati… comunque il regista romano non si può certo lamentare visto che la sua iniziativa ha avuto comunque un discreto successo commerciale, nonostante la mediocre qualità del prodotto.
Olivia parte con quattro sue amiche per trascorrere un breve periodo in uno splendido casale isolato su un'isola situata al centro del lago di Bolsena. Le ragazze hanno in programma di compiere un rito purificatore che comprende solo l’assunzione di acqua e non di cibo. Olivia è una ragazza molto dolce, ma nasconde un segreto: nel suo corpo custodisce una parte della sua gemella mai nata. La ragazza in un attimo di sconforto decide di estrarsi il dente selvaggiamente a mani nude. Da quel momento, prende il via una strana e terribile serie di omicidi...
Alex Infascelli è un giovane regista – classe 1967 – che ha dalla sua sicuramente una certa dose di talento – non molta però in effetti… – ma, soprattutto, una lunga gavetta internazionale: nel 1989 si trasferisce a Los Angeles dove inizia a lavorare prima come aiuto scenografo poi come aiuto regista di numerosi videoclip musicali. Il suo film d’esordio è Almost Blue (Id., 2000), pellicola grazie alla quale ha vinto i maggiori premi cinematografici italiani, il David di Donatello, il Nastro d’Argento e il Ciak d’oro. Tre anni dopo realizzerà il suo secondo lungometraggio, Il siero della verità (Id., 2003), e dopo ancora tre anni H2Odio.
Almost Blue, storia – tratta da un romanzo di Carlo Lucarelli – di un assassino seriale che si reincarna nelle sue vittime, non mi era dispiaciuto, ma questo H2Odio è stata una cocente delusione. La storia, pur non essendo originalissima, non è affatto male ma è, a mio avviso, sviluppata malissimo, inoltre non mi è piaciuta per niente la regia del regista romano: egli sembra più che altro attento a dimostrare le sue doti “tecniche” dimenticandosi di dare un ritmo adeguato alla pellicola, la quale si perde tra lunghe sequenze silenziose, rallenty e flashback continui. Alex Infascelli sembra completamente disinteressato a mettere in piedi una sceneggiatura decente e almeno in minima parte coerente, egli sembra improntare il suo lavoro su basi completamente estetiche, il che non è per forza sempre un male soprattutto quando a fare questo scelta è un regista dotato di talento e con uno stile molto personale, ma purtroppo non è questo il caso: H2Odio, in conclusione, non si distingue da un banale videoclip musicale. Il regista cerca di sviluppare un horror “psichedelico”, molto mtv style, partendo da un presupposto interessante: il film, infatti, parte dallo stupefacente caso della “Sindrome del gemello evanescente”. E qui apro una parentesi imprescindibile. La “Sindrome del gemello evanescente” si riferisce a gravidanze in cui all’inizio viene trovata una sacca gemellare, ma in seguito qualsiasi traccia di uno dei due gemelli scompare. Questo accade quando uno dei due feti muore prima dei tre mesi di gravidanza. Uno degli casi più strani del gemello che sparisce nell’utero è il “cannibalismo gemello” nel quale il gemello che sopravvive ingerisce o assorbe i resti del gemello morto. Adesso quello che onestamente non so è se è possibile ritrovare dei resti di tale gemello scomparso all’interno del proprio corpo come succede alla protagonista del film, la quale estrae dalla sua spalla un dente - ??? – che dovrebbe proprio appartenere alla sua gemella morta. Converrete con me che la questione di partenza è veramente intrigante, ma la pellicola nel suo proseguo si perde in un bicchiere d’acqua, puntando, anche a detta dello stesso autore, più che altro a mettere in primo piano ed a scandagliare il rapporto di odio/amore che vi è tra ogni donna e quindi anche tra amiche: ma a mio avviso sbaglia alla grande anche in questo. Le cinque protagoniste del film, fin dall’inizio, sembrano tutto fuorché amiche e se lo scopo del regista fosse stato quello di dimostrare l’ambiguo rapporto che c’è tra esseri di sesso femminile, soprattutto in una situazione stressante, forse non avrebbe dovuto calcare così la mano creando dei personaggi che sembrano delle macchiette, ad aumentare questo senso di “ridicolo involontario” ci mette uno zampino un doppiaggio veramente imbarazzante. Un altro errore dell’autore italiano è la caratterizzazione sempre delle cinque amiche: a parte la protagonista, le altre quattro ragazze sembrano tutte donne molto sicure di sé, sembrano donne finite, non alla ricerca di qualcosa, ognuna con un suo interesse, con un suo modo di vivere. Mentre la protagonista è la fragilità in persona. Troppo grande questa differenziazione per non destare un minimo sospetto su chi farà del male a chi, su chi alla fine impazzirà, anche se forse lo scopo del regista era quello di creare suspence non tanto sul chi, ma sul perchè. Ma anche in questo caso Infascelli a mio avviso “toppa” ancora: troppo presto introduce il tema del gemello evanescente e anche i vari indizi sparsi per tutto il film svelano troppo. Appare chiaro sin dai primi cinque minuti che Olivia farà a pezzi le altre quattro, solo che ciò avviene con un oculato colpo di scena telefonato proprio negli ultimi minuti del film stesso. In pratica assistiamo a circa ottanta minuti di finto climax e poi nulla.
Su molti siti ho letto che H2Odio è solo un esercizio di stile da parte di un giovane regista di talento, sinceramente non so cosa dire, anche se questo fosse vero… a mio parere il film non supera neanche questa prova: Alex Infascelli si comporta come se fosse un “artista”, come uno che non sta facendo un film ma un’opera di video-arte… alla fine però vi è una sola e sacrosanta verità… il risultato è risibile in ogni caso. Il regista romano riprende inquadrature a caso come per esempio quelle di un albero o di una vetrata o lo scoppiettio del fuoco, arrivando addirittura a sovrapporle senza un nesso logico. Indecifrabile. Forse l’autore con queste scelte stilistiche avrebbe voluto farci percepire il mutamento della realtà di cui sono vittime le protagoniste costrette dalla loro dieta a bere solo acqua per una settimana… può essere… ma la sensazione che si ha a vedere H2Odio è quello di un nulla sceneggiativo pasticciato dalle scelte di un regista che come scopo aveva quello di librare libero nell’aria grazie ad una scelta produttiva che non poteva tarpargli le ali. Alex Infascelli parlava, incautamente, di possibilità di capolavoro riferendosi a questo suo progetto liberale… forse non sa però che «nessuno ha mai creato un capolavoro guardando se stesso»… e un film più autocompiaciuto di questo io non l’ho proprio mai visto in vita mia. Stendiamo un velo pietoso che è meglio. Conclusione: idee annacquate.
PS: ultima notizia. Il film, pur essendo italiano e diretto da un regista italiano, è stato girato in inglese. Il motivo non lo so, certo è che questa non è stata un'idea felice, infatti il doppiaggio che ha subito la pellicola di Alex Infascelli penso sia uno dei peggiori della storia del cinema. Chi è causa del suo male, pianga se stesso... e Alex Infascelli, in questo caso, ne ha di motivi per piangere.

martedì 19 gennaio 2010

MYSTERIOUS SKIN (Id., 2004) di Gregg Araki

Gregg Araki è gay… anzi, ancora di più, Gregg Araki è un’icona gay… ma soprattutto Gregg Araki non è un semplice regista, egli è un artista… forse sconosciuto ai più… ma venerato da quei pochi che lo conoscono. Il regista nippo/losangelino nato nel 1959 si fa conoscere ed apprezzare nel 1992 con Totally Fucked Up (Id., 1992) road movie con protagonisti due giovani adolescenti gay, anche se la fama gli giunge solo tre anni dopo con Doom Generation (The Doom Generation, 1995), il film mostra l'incubo visionario di tre adolescenti attraverso un altro road movie, intriso di sangue morte e terrore. Scioccante è poi l'accostamento fra la furia omicida dei ragazzi e i torbidi intrecci sessuali… un triangolo amoroso etero(omo)sessuale rosso sangue mi verrebbe da dire. Questa pellicola è veramente un pugno nello stomaco dell’ignaro spettatore… a proposito di questo voglio raccontarvi un veloce aneddoto: quando lo vidi la priva volta lo stava trasmettendo raitre a notte fonda. Alla fine non ci capii veramente niente… volete sapere il perché? Il film è così violento ed disturbante che per poter essere mandato in onda in televisione esso è stato mutilato in maniera vergognosa… la pellicola di Gregg Araki in versione uncut durava circa 85 minuti, mentre quella trasmessa dalla nostra cara tv nazionale raggiungeva a malapena l’ora… praticamente un terzo del film fatto sparire nel nulla…
Questi due film fanno parte della trilogia “Teen Apocalypse”. Ultimo capitolo della trilogia è un mio personal cult, ovvero Ecstasy Generation (Nowhere, 1997), film, con sempre giovani protagonisti allo sbando, forse ancora più visionario dei precedenti, ma meno brutale e sconvolgente dove però non possono mancare lo stesso scene di violenza brutale e sesso controverso, che sono un po’ la caratteristica principale del regista americano. Ma i veri protagonisti della filmografia di Gregg Araki sono i “suoi” ragazzi disadattati, sempre sessualmente ambigui, confusi, vittime allo stesso modo di loro stessi e del mondo che li opprime, sempre pronti a qualsiasi esperienza extrasensoriale che li possa far credere, anche se solo per poco tempo, di essere liberi e felici… quelli che il “Village Voice” ha definito «the Arakians»: i “rebels without a cause della Lollapalooza Generation”. Ogni creatura forgiata da Araki ha le sfumature dell’Icona che, come tale, è destinata ad essere (oscuro) oggetto del desiderio: ecco allora la figura ricorrente di James Duvall, suo attore feticcio, con la sua carica di sensualità involontaria, con la sua lunga chioma, con il suo sguardo da cerbiatto smarrito. Consiglio vivamente la visione di Ecstasy Generation, film di non facile visione, ma a mio avviso imprescindibile per tutti coloro che, per i più disparati motivi, non considerino la vita sempre e solo una cosa meravigliosa: James Duvall come Icona-Pop di una generazione Avant-Pop, “mito” di una generazione di sconfitti che amano ma non sono mai amati, “mito” di una generazione – senza una vera guida – che vaga alla ricerca della felicità trovando solo infelicità, insomma “mito” di una generazione destinata a soffrire.
Il film che sto per prendere in analisi si intitola Mysterious Skin (Id., 2004) ed è il primo lavoro registico dell’autore nippo/losangelino che non proviene da una sua sceneggiatura originale. La sceneggiatura, elaborata comunque dal regista stesso, è tratta dall’omonimo romanzo scritto da Scott Heim che ha creato molto scandalo al momento della sua pubblicazione negli Stati Uniti.
Brian e Neil hanno 18 anni quando si incontrano: il primo ha cercato a lungo il secondo, convinto che questi potesse aiutarlo a sbrogliare la confusione che ha in testa riguardo a un episodio in comune nella loro infanzia. Brian aveva otto anni quando si ritrovò a casa col naso sanguinante, senza ricordare cosa fosse accaduto: da quel momento molte paure lo attanagliano, e si è convinto di essere stato rapito dagli alieni. Anche Neil, un teppistello scontroso che si prostituisce ripetutamente, ebbe a otto anni un incontro - che gli cambiò la vita - con l'allenatore della squadra di baseball...
Lupo cattivo, ladro di bambini, la figura del pedofilo al cinema è sempre stata spunto, o vittima, di enormi discussioni: argomento tra i più “castrati” e tra i più difficili da rappresentare sullo schermo, la pedofilia sta trovando spazio nel cinema altro, quello non hollywoodiano, quello non standardizzato o bloccato da canoni di (falso) moralismo.
Come avrete capito dalla breve sinossi del film, esso tratta lo scottante e difficile tema della violenta perpetrata ai danni dei bambini, ma Mysterious Skin non è solamente un film sulla pedofilia. Soprattutto perché non adotta il punto di vista dell’adulto, non ce lo spiega, ma ce lo mostra come lo vedono i piccoli e cioè non certo come un mostro. Araki guarda ai bambini e così facendo, scopre la loro curiosità nei confronti del sesso e del mondo, e lascia affiorare il loro narcisismo e la loro fragilità emotiva, l’inesauribile bisogno d’amore che li contraddistingue, la debolezza che li espone al ricatto dei più grandi. Gregg Araki attraverso un racconto di formazione ci racconta, a suo modo ovviamente, la vita di due ragazzini, ormai quasi adulti, vittime ad otto anni delle attenzioni del loro coach di baseball. E lo fa mettendoci dentro tutti i temi a lui cari come l’apocalisse e gli alieni. Inoltre il regista americano, come suo solito, prende lo sconcertante argomento di petto senza falsità o accomodamenti utili al solo scopo di far ingoiare più facilmente la pillola amaro allo spettatore. Egli non sembra interessato a trattare la pedofilia in maniera pedagogica, forse la maniera più semplice – ma anche semplicistica – di trattare un argomento scomodo, inoltre Araki, come detto in precedenza, non ci espone in nessun modo il punto di vista dello stupratore: l’allenatore di baseball sembra quasi una figura di contorno nella storia dei due giovani, anche se in fin dei conti è la (con)causa di tutto quello che succederà in seguito. Una causa lasciata ai margini però, infatti non si sa neanche che fine fa… sparisce e basta. Non è l’analizzare il perché egli fa questo o delle cause che hanno scaturito in lui questa perversione che interessano il regista: egli con un stile libero e selvaggio, in grado di far convivere provocazioni anti moraliste, traccia la figura del pedofilo non come reietto sociale, ma come catalizzatore delle inquietudini trasfigurate nel mito del rapimento alieno e perdute nell’oblio della memoria per Brian o come annunciatore della precoce e impietosa consapevolezza di una diversità fisica ed emotiva per Neil. Araki sceglie la strada più scomoda e diretta, egli è interessato ai giovanissimi protagonisti in quanto individui e non in quanto vittime: ci racconta come uno dei due bambini fosse sessualmente attratto dal proprio coach, vittima (in)consapevole di un “gioco” più grande di lui. In seguito ci spiega il diverso modo in cui due ragazzini reagiscono a ciò che hanno vissuto, lo elaborano sublimandolo in avventura fantastica e misteriosa o addensando in esso la massima e irripetibile felicità: anche nell’abuso può essere infatti innestato un trasporto pieno di passione, un atto di violenza “trasfigurato” in grado di fare sentire Neil l’essere più importante al mondo. Brian invece “trasforma” la violenza subita in un più fantasioso e accettabile rapimento alieno. Mysterious Skin si muove alla ricerca della dimensione personale che i due protagonisti hanno smarrito dopo l’evento, mostrandoci da una parte l’amorale esistenza marchettara e dall’altra l’alienazione de-sessuata con cui rispettivamente Neil e Brian hanno deciso di convivere. Il film di Araki si alterna tra la vita di strada di Neil, vissuta all’insegna della prostituzione, alla ingenua ricerca del suo coetaneo Brian, che tenta di ricostruire cosa gli accadde quella sera, guardando ossessivamente documentari sugli alieni e annotando con diligenza i suoi incubi notturni. Al presente, la pellicola intermezza anche flashback che appartengono al triste avvenimento del passato che accomuna i due protagonisti. Ad un certo punto del film Brian arriva alla soluzione: Neil è la chiave di tutto, Neil sa cos’è successo realmente. Neil, a differenza di Brian, è sia vittima che complice, ma mentre la storia si ricompone la sua corazza strafottente si incrina, la sua solo esteriore sicurezza lascia intravedere una disperazione sorda, un bisogno d’affetto mai colmato. Ciascuno dei due protagonisti si è tenuto dentro il dolore, la paura, lo sgomento, e per attutirli e imbavagliarli si è raccontato una bugia. Una bugia che ha portato le vite di entrambi in vicoli ciechi pericolosi, impedendo loro una scelta autentica, uno sviluppo sereno ed armonioso. Il finale in cui i due protagonisti si incontrano e in cui Brian finalmente scopre la cruda verità tanto agognata non è per niente consolatorio, anzi… vedere i due ragazzi abbracciati, da soli, rende bene quel senso di solitudine che li accomuna nonostante il loro carattere diverso, il loro modo diverso di avere reagito al nefasto evento e la loro vita completamente diversa.
Mysterious Skin pur trattando un argomento tanto serio e scomodo è caratterizzato da un’atmosfera da angosciante fiaba surreale ricreata anche dalla colonna sonora dove spiccano le note incantate dei Sigur Ros, alternative gruppo musicale finlandese.
Un film assolutamente da vedere in definitiva. E Gregg Araki è un Must. Punto e a capo. Conclusione: film spaziale.

martedì 12 gennaio 2010

L'ULTIMA CASA A SINISTRA (The Last House on the Left, 2009) di Dennis Iliadis.

Bentornati! Eccomi di ritorno dopo le – lunghe – vacanze natalizie in cui ho poltrito un po’ più del previsto. Ma adesso sono di nuovo pronto a ripartire con più entusiasmo di prima. Perciò benvenuti alla mia nuova recensione…
Eccoci finalmente al “Rape & Revenge”. Dopo circa una decina di recensioni, arrivo a toccare uno dei miei (sotto)generi preferiti sul quale potrei dilungarmi a scrivere per ore. Uno dei film più importanti di questo “malsano” genere cinematografico è sicuramente Non violentate Jennifer (I spit on Your Grave, 1978) di Meir Zarchi. Esso è un vero “nasty movie” x eccellenza... uno dei film più censurati della storia del cinema... il critico Roger Ebert, interpellato su tale pellicola, avrebbe dichiarato che esso è «il peggior film mai realizzato, fa star male, orribile ed eccessivo». Il lavoro cinematografico di Meir Zarchi è, assieme a L'ultima casa a sinistra (The Last House on The Left, 1972) di Wes Craven, uno dei capostipite del cosiddetto genere “Rape & Revenge” – violenza sessuale & vendetta – che andava molto in voga soprattutto negli anni settanta. Anche se il vero capostipite del “Rape & Revenge” è La fontana della vergine (Jungfrukallan, 1959) del maestro svedese Ingmar Bergman. Esso però ovviamente non ha niente a cui spartire con i suoi successori in fatto di violenza e sangue. Vi do questa notizia perché mi diverte molto questo fatto: un regista considerato tra i migliori di tutti i tempi ha dato vita – involontariamente – ad uno dei generi più esecrabili di tutta la storia del cinema, in cui la misoginia raggiunge, in molti casi, livelli altissimi. Ho citato apposta il film di Wes Craven perché, oltre ad essere un film cardine del suddetto genere, l’oggetto della mia recensione è proprio il suo remake realizzato nel 2009 ad opera di Dennis Iliadis, emergente regista greco che si è fatto conoscere al mondo con l’ottimo Hardcore (Id., 2004) inquietante storia di quattro prostitute adolescenti nell’Atene dei nostri giorni.
A proposito di remake, pare che Hollywood abbia deciso di puntare forte su una versione aggiornata e – naturalmente… – edulcorata del “Rape & Revenge”, infatti sono in arrivo i rifacimenti del già sopracitato Non violentate Jennifer e di Il mostro della strada di campagna (And Soon the Darkness, 1970) di Robert Fuest. Quest’ultimo da molti considerato, appunto, un rape & revenge movie, a mio avviso non lo è… ma tanto vale, perché in ogni caso è una pellicola da vedere. Sono onesto questa nuova ondata di pellicole “stupro e vendetta” non mi esalta per niente, nonostante io non sia contrario ai remake… come per gli altri sottogeneri estremi penso che ognuno di essi abbia avuto il suo tempo e il suo momento di gloria. Dovete sapere che il cinema estremo è – a mio parere – un mondo a parte rispetto al cinema “normale”: un cinema che molto spesso ha come unico scopo quello di scioccare lo spettatore, ma a volte, oltre al disgusto estetico che si porta sempre appresso, vi si può trovare anche una determinata critica sociale. L’ultima casa a sinistra, quello del 1972, era chiaramente influenzato dal caotico clima sociale che si respirava in quegli anni negli Stati Uniti: esso univa gli orrori della Manson Family a quelli della guerra del Vietnam. Così, velocemente, mi viene in mente anche il caso nostrano di Cannibal Holocaust (Id., 1980) di Ruggero Deodato, il quale attraverso una buona dose di shock visivi, alcuni dei quali anche moralmente discutibili come le varie uccisioni di veri animali, analizzava in maniera cruda ed interessante la società di quegli anni, scagliandosi contro soprattutto al mondo dei mass media. A proposito del film del regista romano, che senso avrebbe adesso come adesso far rifiorire, per esempio, il genere “cannibal movie” che era tanto di moda nel nostro paese negli anni settanta ed ottanta? Nessuno e lo stesso vale per il “Rape & Revenge”. Soprattutto perché standardizzare certi sottogeneri, passaggio questo indispensabile per renderli accessibili al pubblico del Main Stream, vorrebbe dire snaturarli e basta… passatemi l’esempio un po’ insulso: un giorno uno si sveglia è decide di rendere i film pornografici fruibili attraverso normali sale cinematografiche. Cosa si dovrebbe fare? Eliminare tutte le scene di sesso reale ovvero le penetrazioni, eliminare tutte le inquadrature di membri maschili sull’attenti ecc… e alla fine cosa rimane? Un film soft core al massimo, di certo non una pellicola pornografica. Che senso ha? Nessuno. Nonostante questo devo dire che il film del regista greco mi è piaciuto abbastanza, ma vi prego non chiamatelo “Rape & Revenge”…
Veniamo al film…
I Collingwood si recano alla loro casa sul lago per le vacanze. Poco dopo il loro arrivo, la figlia Mari va in città a trovare la sua amica Paige. Qui le due ragazze incontrano Justin, che le invita nella sua camera d'albergo per fumare un po' d'erba. Mentre i tre si stanno rilassando, irrompono nella stanza Krug, padre di Justin, Francis e Sadie. Per Mari e Paige è l'inizio di un incubo, fatto di stupri, umiliazioni e violenze.
Ecco il rifacimento “poco rape e molto revenge” de L’ultima casa a sinistra pellicola epocale diretta da uno dei maestri del “new horror” ovvero Wes Craven autore di vere chicche come Le colline hanno gli occhi (The Hills Have the Eyes, 1977), Nightmare – dal profondo della notte (A Nightmare on Elm Street, 1984) e Scream (Id., 1996). Cosa è rimasto della carica eversiva del film originale? Poco niente. La parola d’ordine degli sceneggiatori è stata quella di smussare la pellicola originale di ogni suo elemento trasgressivo e disturbante rendendo così il remake fruibile ad un brufoloso pubblico da multisala abituato a ben meno shock visivi. La prima parte ad essere stata annacquata – e non potrebbe essere altrimenti – è la scena dello stupro, la quale si riduce a pochi minuti di violento amplesso che potrebbe scioccare i più suscettibili, ma che non è neanche minimamente paragonabile alla corrispettiva presente nel film del 1972. E questa non è una differenza da poco, perché il punto di forza del genere “Rape & Revenge” è sempre stato l’insostenibile durata delle scene di violenza – sessuale e non – di cui sono vittime le sfortunate protagoniste: stupri che durano più di mezz’ora, torture fisiche e psicologiche di ogni tipo occupavano praticamente quasi la totalità della durata del film, mentre la successiva vendetta era assai molto più veloce e indolore. In questo remake – ma sono pronto a scommettere quello che volete che anche nei prossimi rifacimenti prima accennati sarà così - invece è l’esatto contrario, ossia grande spazio alla meno moralmente problematica vendetta, a discapito delle scene di violenza sessuale, le quali potrebbero creare non pochi problemi con la commissione di censura. Comunque anche la vendetta dei Collingwood è stata diluita in maniera evidente. Per diluita, intendo che oltre a durare molto di più che nel film di Wes Craven anch’essa è molto meno cruenta: nessuno dei fan della pellicola originale si aspetti di ritrovare, in questo remake, la “cara” sig.ra Collingwood evirare a morsi uno degli aggressori. Situazione tra l’altro abbastanza frequente in questo genere di prodotti cinematografici: in Non violentate Jennifer, per esempio, ad uno degli stupratori viene tagliato di netto il membro con un coltellaccio da cucina… Lorena Bobbitt docet, insomma. Tra l’altro una differenza che non mi è piaciuta è la diversa rappresentazione “morale” di tale vendetta: nel film del 1972, prima di tutto essa era molto veloce e feroce frutto di una famiglia che reagiva in maniera inaspettatamente violenta ai soprusi ricevuti; mentre nella pellicola del 2009, essa è molto più lenta e ragionata. Mentre nell’originale la famiglia si trovava quasi costretta a reagire in tale modo, nel rifacimento la “stessa” famiglia capisce cosa sia successo realmente, questo soprattutto perché la figlia non è morta come nella pellicola di Wes Craven, ma nonostante questo non vaglia nessun’altra opzione se non farsi giustizia da sé.
Per concludere, vorrei analizzare la nuova rappresentazione dei protagonisti. I “cattivi” sono troppo normalizzati a mio avviso: Krug e soci nell’originale erano psicopatici malati che provavano piacere a fare male fisico agli altri: come esempio si potrebbe citare la scena in cui Krug incide con un rasoio il suo nome sul petto di una delle due sfortunate protagoniste. Mentre i corrispettivi moderni non hanno la stessa carica eversiva: sono normalissimi fuorilegge che agiscono inizialmente solo per la paura di essere scoperti, essendo Krug appena fuggito di prigione. Anche le interpretazioni, alla fine, risultano senza infamia e senza lode, di certo l’interpretazione completamente “fuori dalle righe” di David Hess nella parte di Krug è di un’altra categoria. Tra l’altro l’attore americano sarebbe rimasto intrappolato per sempre in tale ruolo, ripetendolo a vita in film mediocri come La casa sperduta nel parco (Id., 1980) di Ruggero Deodato. I “buoni” invece mi sono piaciuti, a partire dalla figlia protagonista. I genitori riescono a rendere bene l’idea di quale tragedia stiano vivendo, anche se la loro trasformazione in “giustizieri della notte” è eccessiva e priva di quella sensazione di rimorso che una tale scelta dovrebbe causare: “ok, ci hanno violentato la figlia… che facciamo? Li uccidiamo? Si, va bene”… troppo veloce, troppo semplicistico.
Comunque la pellicola di Dennis Iliadis è un thriller/horror sufficiente che si lascia apprezzare per le molte scene splatter, anche se tutto sommato la tensione latita. I pregi maggiori del remake rispetto all’originale sono tutti da attribuire al molto più elevato budget stanziato per la sua buona riuscita – il film di Wes Craven venne realizzato con la miseria di 90.000 $ - che permette una realizzazione tecnica e scenica nettamente superiore al film del 1972. Se volete seguire il mio consiglio, virate sulla pellicola più datata, che sicuramente paga una realizzazione approssimativa e il passare degli anni, ma che comunque non ha perso nulla della sua carica eversiva. Ma se volete veramente vederlo ricordatevi ciò: “To avoid fainting keep repeating, it’s only a movie… only a movie… only a movie… only a movie…”.
Ultima notizia di servizio, L’ultima casa a sinistra avrebbe dovuto fare la sua comparsa sugli schermi cinematografici l’estate scorsa, ma la Universal intelligentemente ha deciso in seguito di bypassare il grande schermo e di farlo uscire direttamente in dvd: il motivo? La commissione di censura italiana voleva bollare la pellicola con un bel V.M. 18, il quale avrebbe stroncato chiaramente ogni possibilità di un buon risultato al botteghino. Credo che tale divieto sia veramente eccessivo e che sia frutto solo della situazione che si sta vivendo in Italia negli ultimi anni dove sempre più donne sono vittime di abusi sessuali. Il sonno della ragione genera mostri purtroppo… Conclusione: vino annacquato.