martedì 22 dicembre 2009

BUNGEE JUMPING OF THEIR OWN (Beonjijeompeureul hada, 2001) di Kim Dae-sung

Nuova chicca orientale per i miei fidati lettori... e questa volta il caso è ancora più eclatante e sconcertante del precedente, ovvero Conduct Zero (Pumhaeng Zero, 2002) di Cho Keun-Sik. Almeno la pellicola da me trattata in precedenza aveva visto la luce, nel nostro bel paese, in un edizione dvd scarna... la quale non comprendeva neanche l'audio in italiano, ma solo quello originale con i sottotitoli nella nostra lingua opzionabili. A Bungee Jumping of Their Own (Beonjijeompeureul hada, 2001) di Kim Dae-sung è andata sicuramente peggio: esso non è mai uscito qui da noi e non credo, a questo punto, che uscirà mai. Peccato, perché è veramente un bel film! Qui si potrebbe, e sarebbe molto interessante, aprire un dibattito sulle scelte dei film da distribuire da parte delle case di produzione e distribuzione di audiovisivi: esse sono sicuramente condizionate dalle leggi del mercato, se no non si spiegherebbe l'uscita di film come American Pie 12, 13, 14... o di altri “filmacci” del genere a discapito di pellicole sicuramente più valide ma con poco appeal sullo spettatore medio. Per quanto riguarda il cinema asiatico, mi vengono in mente subito due commedie mai uscite in Italia... diciamo da consigliarvi così su due piedi: I'm Cyborg, But That's Ok (Saibogujiman kwenchana, 2006) di Park Chan-Wook mitico regista della “trilogia della Vendetta” comprendente Sympathy for Mr. Vengeance (Boksuneun naui geot, 2002), Old Boy (Oldebuoi, 2003) e Lady Vendetta (Chinjeolhan geumjassi, 2005); l'altra pellicola andata misteriosamente perduta invece è My Sassy Girl (Yeopgijeogin geunyeo, 2001) di Jae-young Kwak... che non è cinema, ma è IL cinema.
Bungee Jumping of Their Own è stato il film d'esordio del regista coreano Kim Dae-sung, il quale fu, in precedenza, assistente alla regia del maestro Im Kwon Taek. Questa sua pellicola è stata definita da molti critici come il più raffinato mèlo del cinema coreano contemporaneo, questo per farvi capire che non si tratta proprio di un filmetto qualunque, il che rende ancora più assurdo il suo esilio forzato dal nostro, cinematograficamente parlando, ignorante paese.
Agosto 1983. In un piovoso pomeriggio In-woo, timido studente universitario, incontra alla fermata del bus la bellissima Tae-hee, studentessa d'arte. Tra di loro nasce ben presto un legame profondissimo, ostacolato però dall'incombente servizio militare che aspetta In-woo. Il film poi esegue un salto temporale in avanti di quasi vent'anni e nel 2000 ritroviamo In-woo sposato, con un altra donna, e professore in un rinomato liceo. Sarà proprio in questo liceo che In-woo si innamorerà di un suo studente diciassettenne, il quale a suo parere, altro non è che la reincarnazione di Tae-hee, il suo primo – e unico – grande amore.
Bungee Jumping of Their Own è una pellicola caratterizzata da una struttura bipolare. Dopo un inizio folgorante, che solo a visione conclusa si potrà comprendere appieno, con la telecamera che vola tra uno splendido paesaggio, la prima parte del film risulta essere una commedia romantica che ha per protagonisti due giovani studenti innamorati alle prese con i classici problemi del primo amore. Quello che mi ha colpito di questo segmento di film è la delicatezza con cui il regista tratta argomenti importanti come la prima volta: le difficoltà sono ben rappresentate dalla scena clou di questa prima parte in cui, In-woo e Tae-hee desiderosi di perdere la loro verginità insieme, si recano in uno squallido motel. Una volta giunti a destinazione, i due ragazzi se ne stanno tutta la notte uno da una parte della stanza e l’altra dalla parte opposta senza avere nessuno dei due il coraggio di fare il primo passo. La realizzazione di questo primo “spezzone” di film è di impianto molto classico e non spicca per originalità: vi sono le solite schermaglie iniziali, con la protagonista restia a concedersi all’amore dello spasimante; vi sono i soliti amici che spingono il protagonista verso la tanto agognata “prima volta” recando ad esso più danno che altro; e vi sono le solite situazioni ambigue e controverse che rischiano di incrinare il rapporto. Certo è innegabile che Kim Dae-sung ha un grandissimo talento e, proprio per questo, pur confrontandosi con un inizio di pellicola molto standardizzato, riesce ad elevarsi dalla media grazie a sequenze molto ben realizzate come quella del litigio sotto la pioggia. Ma Bungee Jumpinf of Their Own prende letteralmente il volo nella sua seconda parte facendo salire di livello una pellicola fino ad allora solo appena godibile. Primo tocco di genio del regista: stacco di quasi vent’anni – dal 1983 al 2000 – improvviso, inaspettato e senza una minima spiegazione. La seconda metà del film è un sublime dramma intimistico incentrato su un argomento che è ancora tabù in Corea del Sud, ovvero l’omosessualità: in tale paese questa tendenza sessuale è rinnegata almeno quanto da noi Berlusconi sconfessa il potere dei giudici. Infatti è molto difficile che si realizzano film su tale scottante argomento e dei pochi realizzati quello in questione è, forse, l’unico ad aver riscontrato successo e consensi. Tra l’altro pensate che in Corea del Sud vi è perfino un test per poter testare la virilità maschile e quindi provare la propria non omosessualità... lo stesso protagonista del film in questione si sottopone a tale test. Questo secondo tempo segue In-woo ormai adulto e la sua crescente passione per un suo studente, nel quale il protagonista vede la reincarnazione del suo primo grande amore. La pellicola di Kim Dae-sung cambia così totalmente regime tralasciando i toni leggeri e spensierati della prima parte e concentrandosi sulla lenta ed inesorabile devastazione della vita del protagonista che lo porterà a perdere prima il lavoro e poi la moglie, forse in realtà mai amata veramente. Pur accostandosi al tema dell’omosessualità, splendidamente messo in scena nella seconda parte, il vero scopo del regista è quello di realizzare una pellicola sull’amore eterno, il quale non può essere limitato da niente e da nessuno… l’amore vero, quello infinito, quello che prosegue anche oltre la morte. Detto così sembra molto banale, ma non lo è assolutamente, credetemi: Bungee Jumping of Their Own è una parabola sul destino, su quello che esso ci toglie e su quello che poi ci ridà. Il primo amore inizialmente rubato ad In-woo, adesso gli viene restituito, e poco importa sotto quale aspetto o forma. Tae-hee è – forse… – rinata nelle spoglie di Hyun-bin, un giovane studente diciassettenne, ma questo non sembra interessare al protagonista, il quale non riesce a resistere al richiamo del vero amore: “Se ti gettassi da un precipizio, dicevi che la tua vita non sarebbe finita lì. Ci incontreremo di nuovo, innamorandoci. Non sarà solo perché ti amo, ma perché l’unica cosa che posso fare è amarti, amarti per sempre”.
Il film di Kim Dae-sung è veramente una pellicola stranissima, che consiglio vivamente a tutti. Certo non è esente da pecche e qua e la c’è qualche piccolo tonfo nella sceneggiatura… però il regista riesce a tenere bene in mano la situazione equilibrando un lavoro formato praticamente da due metà che poco hanno in comune, infatti ad un primo spezzone scanzonato ne segue uno molto drammatico. A mio parere, questa seconda parte è nettamente superiore alla prima, anche perché quest’ultima, alla fine, sa troppo di già visto. Se dovessi trovare una pecca a tutti i costi, direi che gli amici del protagonista da studente sono troppo stereotipizzati: in pratica sono solo due, uno naturalmente pensa solo al sesso, l’altro invece è più saggio e prudente. Insomma, la solita solfa della coscienza divisa: se ci fate caso infatti in molti film – soprattutto commedie – le spalle (ovvero i co-protagonisti) del personaggio principale hanno sempre la personalità agli antipodi, da una parte si ha l’amico “diavoletto” che naturalmente consiglia sempre male e altrettanto naturalmente viene sempre ascoltato dal protagonista, se no non si potrebbe avere la classica crisi pre-conciliazione finale tra i due attori principali, mentre dall’altra si ha, invece, l’amico “angioletto”, quello che ovviamente non viene mai preso in considerazione. Nella seconda parte, mi ha molto convinto la rappresentazione della presunta omosessualità crescente del protagonista. Povia in una sua – pessima… – canzone cantava: “Luca era gay, ma adesso sta con lei…”, in Bungee Jumping of Their Own è vero invece il contrario: “In-woo stava con lei, ma adesso invece è gay…”, anche se questo è tecnicamente inesatto. In-woo non è omosessuale, egli è innamorato di Tae-hee che si è reincarnata in un ragazzo, e questo non è mica colpa sua… d’altra parte al vero amore non si comanda.
Per concludere, una nota di merito al finale della pellicola che mi ha molto colpito e affascinato. È vero che esso forse è un po’ forzato e, a ben vedere, anche un po’ scontato però raggiunge vette di poeticità e lirismo che ultimamente difficilmente mi è capitato di riscontrare in altri film. Se dovessi far un paragone lo affiancherei alla conclusione di Ferro 3 – la casa vuota (Bin Jin 3 - Iron, 2004) di Kim Ki-Duk… alt! Chi non ha visto questo film è pregato di smettere di leggere e di andare subito a noleggiarlo, pena fustigazione con cinghia di cuoio. Mi trovo d’accordo con Paolo Mereghetti che a proposito della fine di Ferro 3 – la casa vuota ha scritto: “il finale sarebbe piaciuto ai surrealisti”. Verissimo, ne approfitto per utilizzare questa citazione per il film in questione, anche questo finale sarebbe piaciuto molto ai surrealisti… il motivo?! Lo stesso che ci dà sempre il buon Mereghetti nel suo dizionario riferendosi alla pellicola di Kim Ki-Duk: l’elogio dell’amore più forte di tutto, persino della logica, Conclusione: è l’amore, non la ragione, che è più forte della morte (Thomas Mann).

martedì 15 dicembre 2009

LUPIN III – LA STRATEGIA PSICOCINETICA (Rupan Sensei – Nenriki Chin Sakusen, 1974) di Takashi Tsuboshima

Una questione che mi ha sempre appassionato e che non sono ancora riuscito a comprendere appieno, nonostante un mio più che propositivo impegno per risolvere questo intricatissimo mistero, è quella del fattore “trash” nel cinema... cos'è veramente il trash? Esso potrebbe essere uno dei più grandi quesiti irrisolti della storia dell'umanità... scherzo ovviamente! Trash deriva dall'inglese e significa “spazzatura”: “il termine è entrato nell'uso anche in italiano per riferirsi a espressioni artistiche o forme di intrattenimento di basso profilo culturale”. E un film trash cosa è esattamente? Altra domanda di difficile risposta... teniamo per buona questa affermazione: “Diciamo che trash sono quei film girati con scarsi mezzi (ma possono essere trash anche film più ricchi!), con attori indecenti e trame spesse volte risibili che, in genere, mescolano alla rinfusa più sottogeneri, come ghost story, splatter, erotico etc... La maggior parte di questi film cade nel ridicolo involontario”.
Il film in questione, ovvero Lupin III – la strategia psicocinetica (Rupan Sensei – Nenriki Chin Sakusen, 1974), versione live con attori in carne ed ossa del famosissimo anime giapponese, è – a mio avviso – un trash... anzi direi che è trashissimo. Analizziamolo in base all'affermazione di trash precedente: scarsi mezzi? Direi proprio di si; attori indecenti? Si, effettivamente non sono proprio da premio Oscar; trame spesso risibili? Si al 100%... soprattutto a questo; quello che manca effettivamente è la mescolanza di sottogenere alla rinfusa. Beh, tre su quattro non male...
La trama del film di Tajashi Tsuboshima è veramente ai minimi storici in ogni sua componente: essa è solo un pretesto per sfruttare un personaggio molto in voga soprattutto in Giappone ma anche in tutto il resto del mondo, la cui fama, a distanza di più di trent'anni non intende diminuire. Lupin III è un giovane scapestrato che passa le sue giornate alla meno peggio, vivendo di espedienti e alla giornata. Almeno fino a quando non incontra la bellissima Fujiko Mine, e Daisuke Jigen non riesce finalmente a rintracciarlo dopo anni di inutili ricerche: egli lo stava cercando in quanto unico discendente del famoso ladro francese Arsinio Lupin che ai suoi tempi era stato a capo di un vasto e potente impero del crimine. Il compito di Jigen sarebbe quello di convincere Lupin III a ricostruire il grande impero criminale che prima era stato di suo nonno e poi di suo padre. Sulle tracce del giovane scavezzacollo ci sono anche l'immancabile ispettore Koichi Zenigata e una potente organizzazione mafiosa preoccupata dalla possibilità che egli possa veramente rifondare l'impero di famiglia.
Tagliamo la testa al toro... questo film è una “boiata” di dimensioni colossali però qualche sorriso lo strappa e sicuramente ha il pregio di non prendersi sul serio e di durare poco – 83 minuti circa – quindi terminare prima di stancare lo spettatore. Come dicevo in precedenza la trama non esiste, la pellicola è un insieme di situazioni comiche “no sense” che faranno la gioia degli amanti della commedia anni settanta nostrana: toglieteci il fattore pecoreccio, qui praticamente assente, e vi assicuro che vi sembrerà di essere davanti ad una delle tante commedie con protagonisti i vari Lino Banfi, Alvaro Vitale, Renzo Montagnani e così via. Eccovi alcuni esempi chiarificatori: Lupin cerca di baciare Fujiko che è imprigionata in una camionetta della polizia, ma alla fine bacia la guardia; Lupin cerca di baciare Fujiko – ancora... – ma lei gli fa cadere in testa un ramo d'albero; Zenigata per sfogarsi prende la testa del suo sottoufficiale e la sbatte sul tavolo, dopo due volte quest'ultimo si sposta e mette al suo posto l'altro sottoufficiale di Zenigata che dopo aver sbattuto la testa contro il tavolo rimbalza colpendo in pieno il suo collega che si era defilato; Zenigata da un calcio nel sedere sempre al solito sottoposto che però ha nascosto sotto i pantaloni un vassoio d'acciaio... allora l'ispettore ancora più incavolato gli molla un calcione negli “zebedei” ma quest'ultimo li ha protetti con un pentolino sempre d'acciaio.; la lista potrebbe essere molto più lunga, ma mi fermo qua. Adesso ditemi, onestamente, che dopo questa serie di esempi non siete convinti di trovarvi di fronte ad una commedia anni settanta “made in Italy”? Ma non è così... siete al cospetto di un film giapponese del 1974... incredibile, eh? Mi piacerebbe sapere se il regista conoscesse la nostra commedia o se si tratta solo di un caso di somiglianza involontaria... boh. Una cosa è certa però: Takashi Tsuboshima conosce benissimo la “slapstick comedy” e in Lupin III – la strategia psicocinetica ne fa gran uso. “Slapstick” è un termine cinematografico statunitense che sta ad indicare un tipo di comicità, basata sul linguaggio del corpo, nata con il cinema muto. Nascendo nei primi anni del cinema, la “slapstick comedy” ha una forma narrativa molto semplice che fa leva sulla ripetizione di alcuni luoghi comuni e gag topiche: la torta in faccia, la scivolata sulla buccia di banana, la caccia all'uomo (le comiche d'inseguimento con i personaggi che escono ed entrano da un lato o dall'altro della scena con capriole e prove acrobatiche di qualunque tipo), la panchina pitturata di fresco, l'irriverenza verso i poliziotti. Lo “slapstick” è estremamente utilizzato nei cartoni animati: esempi celebri sono Tom & Jerry e Willy il coyote. In questi cartoni, la violenza è rappresentata in maniera esagerata, assurda e, di conseguenza, comica, per stimolare la risata dello spettatore. Ma torniamo al film in questione. Due situazioni in particolare possono essere ricollegate alla “slapstick comedy”: la prima vede Lupin inseguito da una schiera di poliziotti a loro volta inseguiti da Jigen. Durante questo inseguimento i personaggi escono ed entrano a piacimento nell'inquadratura cinematografica. Altra situazione tipica da “slapstick” è che in tale sequenza, gli inseguitori e gli inseguiti cambiano di volta in volta... fino al finale, summa del paradosso, con Lupin che si mette a bivaccare al centro della scena e gli altri che continuano a rincorrersi senza accorgersi che lui è fermo lì nel centro. La seconda situazione vede, invece, Lupin che viene fatto vittima di un “montone” da parte dei i poliziotti, ma egli riesce a sgattaiolare via senza che nessuno se ne renda conto. Alla fine quando i poliziotti, finalmente, se ne accorgono e rincominciano ad inseguirlo, scopriamo Zenigata, ammanettato a posto del furfante. Ecco, la pellicola è una serie di gag, più o meno tutte di questo tipo, senza un nesso logico, quindi direi che l'apprezzare questa trasposizione in carne e ossa del celebre cartone animato passi soprattutto da qua: da quanto piacciono queste situazioni comiche e surreali. In fondo al regista non penso proprio interessasse altro... in certe scene vediamo Lupin III correre ad una velocità supersonica... secondo voi Takashi Tsuboshima si è preoccupato minimamente di spiegarci il perché? Assolutamente no!
Un argomento di discussione interessante da sottolineare è la coerenza, o meglio l'incoerenza, di questa pellicola se la confrontiamo con il cartone animato da cui è tratta... e qui, ahimè, casca l'asino! Lupin III – la strategia psicocinetica centra con il suo contraltare animato come il cavolo a merenda. Il protagonista, oltre ad avere un improponibile ciuffo, non sembra neanche lontano parente dell'originale ideato da Monkey Punch: vestito di bianco, capello abbastanza lungo, foulard al collo... per fortuna che la sua passione per le donne – soprattutto Fujiko – è rimasta inalterata perché a me il primo commento che è venuto in mente, dopo averlo visto così “conciato”, è che sembra proprio un “fricchiettone”. Jigen è sempre un abile pistolero, ma non ha la stessa verve che ha nel cartone... qui sembra una semplice comparsa senza una parte importante... alla fine risulta un po' anonimo. L'ispettore Zenigata è incredibilmente ancora più imbecille di quanto lo sia nel cartone animato. Il che non so se è un bene o un male. A Fujiko manca il fisico prorompente che ha nei cartoni, però caratterialmente è quella che assomiglia di più all'originale. Ma quello che manca veramente è l'atmosfera... la scanzoneria dell'originale viene sostituita da una serie di situazioni da farsa, alcune – non molte in verità – anche divertenti, ma che non possono essere minimamente paragonate a quelle che si vivevano nel cartone animato. L'unica scena che sembra essere presa direttamente dall'anime è la scena della rapina dei gioielli, i quali vengono aspirati da un tubo aspiratutto.
Un film strano, particolare... lo consiglio giusto per il suo valore trash... il quale è veramente alle stelle! Però alla fine si tratta solo di un filmetto così, da vedere con “noschalans”, niente di memorabile... e il cartone è sicuramente un'altra cosa. Secondo me, comunque, l'eventuale apprezzamento o no di questa pellicola dipende molto da con che spirito si guarda: bisogna veramente scollegare il cervello per tutti gli ottanta minuti, però io sinceramente mi aspettavo qualcosa di meglio. Conclusione: di Lupin al mondo uno ce n'è.

martedì 8 dicembre 2009

VIVE LA FRANCE!

“Vive la France!”.
Io, cinematograficamente parlando, ho sempre amato la Francia, ma ultimamente la amo ancora di più... e volete sapere perché?! Per tre horror movie che ho visto di recente – anche se la lista potrebbe essere più lunga –, i quali mi hanno letteralmente deliziato per la cattiveria che si portano dietro: tre pugni nello stomaco difficilmente dimenticabili... e già questo, per una pellicola horror, si può definire un bicchiere mezzo pieno. Ecco a voi il magico trittico, in ordine rigorosamente alfabetico: À l'Interieur (Id., 2007) di Alexandre Baustillo e Julien Maury, Frontiers – Ai confini dell'inferno (Frontiers, 2007) di Xavier Gens, ed infine Martyrs (Id., 2008) di Pascal Laugier.
Diamo via alle danze, riassumendo brevemente le trame dei sopracitati film: A l'Interieur, una giovane donna incinta, Sarah, è in casa da sola, quando, a tarda serata, una signora le si presenta alla porta intimandole di farla entrare. Per Sarah sarà l'inizio di un incubo assurdo, infatti l'obiettivo della sconosciuta altro non è che “strapparle”, con ogni metodo possibile, il pargolo che ha in grembo; Frontiers – ai confini dell'inferno, durante alcuni scontri in seguito ad una manifestazione politica contro l’eventuale salita al potere della destra estrema, un gruppo di ragazzi approfitta della caos per sfuggire alla polizia dopo una rapina. Il gruppo ha intenzione di raggiungere l’Olanda oltrepassando la frontiera francese. Essendo ormai notte inoltrata, i ragazzi decidono di fermarsi in un motel sperduto nei pressi del confine con il Belgio. Mai decisione fu più sbagliata... infatti esso è gestito da una famiglia di psicopatici, capeggiati da un folle patriarca nazista; Martyrs, Lucie, scomparsa da un anno, viene ritrovata mentre cammina lungo una strada, in stato catatonico, confusa e senza memoria di quello che le è capitato. La polizia scopre il luogo dove la giovane è stata rinchiusa: un vecchio mattatoio abbandonato. Altro fatto strano, Lucie non porta alcun segno di abuso sessuale o di violenza. Quindici anni dopo, ritroviamo Lucie con un fucile in mano pronta a far fuoco su una, almeno apparentemente, famiglia qualsiasi.
Prima di parlare – brevemente – di ognuno dei tre film, vorrei fare un discorso generale sul periodo veramente d'oro che sta attraversando il cinema horror d'oltralpe, soprattutto se paragonato all'immobilismo del nostro paese. Con fare un po' provocatorio ho spesso definito questo “magic moment” francese come una nuova Nouvelle Vague... immagino che qui si alzeranno boati di sdegno (forse anche in parte giustificati), ma sta di fatto che i più recenti horror francesi sono ciò che di meglio si possa sperare in tale campo: le storie sono, quasi sempre, non troppo convenzionali e già questo, per un genere atrofizzato come quello dell'orrore, non è poco, se poi a questo si aggiunge tanta... ma proprio tanta... cattiveria – oltre ad ettolitri di liquido rosso che non guastano mai – si capisce perché i fans di tale genere abbiano spostato maggiormente la loro attenzione sul cinema che nasce sotto la torre Eiffel. Il paragone con la Nouvelle Vague “originale”, a mio avviso, facendo ovviamente le determinate proporzioni, ci può stare per due diversi motivi: in primis, perché come i vari Jean-Luc Godard, Francois Truffaut, anche questi registi sono alle prime armi ed hanno a disposizione capitali veramente limitati, a cui sopperiscono con una buona dose d'ingegno; secondo, perché – questa è una mia personalissima opinione – questi film francesi saranno, nel più ristretto campo del cinema orrorifico, quello che i film della Nouvelle Vague furono, ai loro tempi, per tutta la cinematografia mondiale, in quanto essi getteranno le basi di un cambiamento generazionale per quanto riguarda gli “horror movie”: è innegabile che chiunque si confronterà con il genere in questione dovrà per forza “scontrarsi” con un film come Martyrs che segna il nuovo limite del rappresentabile. Infatti il film di Pascal Leugier, in quanto a violenza e cattiveria, fa sbiadire i vari Saw ed Hostel. Sinceramente questo osare di più, è favorito anche da un motivo prettamente burocratico, il quale è di rilevante importanza: in Francia non ci sono i limiti imposti dalla MPAA americana. È inutile cercare di negarlo comunque, l'horror del XXI secolo parla francese ed è un bene che sia così... punto e a capo.
Partiamo dal film meno riuscito che comunque, a mio parere, è lo stesso più o meno sufficiente: Frontiers – ai confini dell'inferno. Per farvi capire la portata eversiva di questo lavoro di Xavier Gens vi riporto due commenti estrapolati dal suo trailer in italiano: “Non so quale paese avrà il coraggio di farlo uscire in versione integrale” e “Questa volta si è andati veramente troppo oltre”. Semplice trovata pubblicitaria? Molto probabile, infatti con me ha funzionato... l'ho comprato senza sapere cosa fosse, e alla fine non me ne sono neanche dovuto pentire troppo. Soprattutto perché il film è veramente sporco, cattivo, eccessivo ed iperviolento, anche se tra i tre è quello che sarà meno indigesto ad uno spettatore navigato. Il problema principale della pellicola è che sa troppo di già visto: metteteci una famiglia di psicopatici direttamente discendente da quella di Leatherface nel cult Non aprite quella porta (The Texas Chainsaw Massacre, 1974) di Tobe Hooper, aggiungeteci poi una buona dose di violenza nell'ormai classico “Hostel style” – torture varie in pratica... –, un pizzico de La casa del diavolo (The Devil's Rejects, 2005) di Rob Zombie, tra l'altro una delle protagoniste – Estella Lefébure – sembra la copia perfetta di Sheril Moon nel film del regista americano, e infarinate il tutto con tanta emoglobina rossa ed ecco che avrete il vostro Frontiers pronto all'uso. Insomma niente di che, una pellicola che fa del “citazionismo estremo” il suo punto di partenza ma anche di arrivo non riuscendo perciò, in fin dei conti, a fare il salto di qualità: forse dal punto di vista prettamente cinematografico, una mezza occasione persa che risolleva in parte le sue sorti grazie ad una cattiveria intrinseca non per tutti gli stomaci. Giusto il V.M. 18.
Ecco ora una delle due note lietissime: A l'interieur. È stato veramente difficile per me scegliere quale tra questo film e Martyrs ho apprezzato di più... alla fine ho deciso, a malincuore, che la pellicola di Pascal Laugier mi è piaciuta un pizzico in più... ma non preoccupatevi perché siamo veramente a livelli eccelsi in entrambi i casi. La trama del film della coppia Baustillo/Maury è veramente molto semplice, quasi banale: nessun colpo di scena che possa spiazzare lo spettatore nell'arco degli ottanta minuti scarsi... la storia fila via liscia fino al suo epilogo... mi verrebbe da dire liscia come bere un bicchiere d'acqua... il problema è che nel bicchiere non c'è acqua... ma dell'acido!!! Perché è questa la sensazione che ho avuto a vedere A l'interieur... alla fine della proiezione, mi sembrava di avere lo stomaco sottosopra... che incantevole sensazione. Esso è di gran lunga uno degli horror più violenti che mi è capitato di vedere negli ultimi tempi, una vera carneficina condita da alcune scene altamente disturbanti: Baustillo e Maury superano volontariamente il limite del consentito puntando direttamente all'oltraggioso. Niente da dire, un film – da vedere assolutamente... – che ha fatto tanto discutere e continuerà a farlo: ma tanto a noi il problema non tocca, visto che per ora di poterlo avere nel nostro “bigotto” paese non se ne parla proprio. Forse è meglio così... perché sono convinto che una sua eventuale distribuzione italiana scatenerebbe almeno due o tre “family day”. Il tema principale della pellicola è un tema che oramai sembra molto caro al cinema di genere francese: l'intrusione ingiustificata di estranei all'interno delle nostre mura domestiche... ovviamente con intenti tutt'altro che cordiali. Altro horror d'oltralpe molto simile, almeno come incipit iniziale, e vivamente consigliato è Them (Ils, 2006) di un'altra coppia di giovani registi: David Moreau e Xavier Palud in seguito emigrati negli Stati Uniti per dirigere il mediocre remake dell'altrettanto mediocre j-horror The Eye (Gin gwai, 2002) diretto dai fratelli Oxide e Danny Pang. Io credo che in questa paura si rispecchi soprattutto una situazione sociale non propriamente idilliaca, infatti due dei tre film in questione sono ambientati durante violente rappresaglie che stanno mettendo in ginocchio una città intera. È impossibile qui non fare un paragone con i grandi horror americani degli anni settanta come il già citato Non aprite quella porta, dove vi è un'America che non si è ancora ripresa dalle conseguenze catastrofiche di una guerra, quella del Vietnam, che sembra aver portato alla deriva un'intera società. Il merito principale del duo francese è quello di sviluppare il tema dell'intrusione su due livelli differenti: il titolo stesso del film chiarisce gli intenti “malsani” dei due registi: "A' l'interieur". All'interno. E questo interno è sia l'appartamento dove Sarah, illusoriamente, si sente in tutta sicurezza, mentre fuori infuriano le rivolte parigine, sia il ventre materno, che dona un altrettanto chimerica protezione al suo bambino. E quando vediamo le reazioni del feto che imita i movimenti della madre, e alza le braccia per proteggersi dai colpi che Sarah subisce, ci rendiamo conto di avere a che fare con qualcosa di veramente “nasty”, che infrange tutti i tabù possibili ed immaginabili. Consiglio spassionato: le donne in dolce attesa si astengano dalla visione.
And the winner is... Martyrs. Ecco a voi il film più agghiacciante degli ultimi anni. Prima di iniziare questo mio nuovo post per il mio blog mi sono auto-imposto che per quanto riguardava il film di Pascal Laugier non avrei fatto nessun accenno alla trama, questo per non rovinare la visione a nessuno... mai come in questo caso questa limitazione è necessaria, fidatevi! Molta gente, sul web, riferendosi al film di Pascal Leugier ha parlato impropriamente di “torture-porn”, io credo che questo accostamento sia una cantonata indicibile: Hostel (Id., 2005) – ma anche i vari capitoli della saga dell'enigmista, escludendo forse il primo – con la sua violenza grottesca, esasperata ed esibizionistica è un “torture-porn”, in quanto esso sembra non avere altro scopo se non quello di disgustare lo spettatore, voyeur (in)consapevole del gioco ad hoc costruito dal regista Eli Roth. Dimenticate il divertissement Rothiano, qua siamo su un altro livello... Martyrs è un horror completamente unico nel suo genere, un condensato di tensione che non si allenta per tutti i novanta minuti di visione: solo A l'interieur ha, secondo me, la stessa carica eversiva intrinseca che non lascia un attimo di respiro. La pellicola di Pascal Leugier attinge a mani basse da tutto il cinema di genere mondiale, ma non si tratta di una semplice citazionismo estremo come nel caso di Frontiers, qui tutto ha un suo perché. Ed così che si passa dal j-horror asiatico fatto di donne rantolanti – The Grudge (Ju-on, 2000) di Takashi Shimizu non vi dice niente? – allo splatter made in USA, passando attraverso il thriller nostrano anni settanta – non a caso Martyrs è dedicato a Dario Argento – e l'horror domestico francofono sulla falsa riga di A l'interieur... il tutto però condito con elementi filosofici/metafisici. In questo mix – letale... – la bravura del regista è stata quella di saper comunque amalgamare ispirazioni varie, evitando la sensazione di assistere ad un miscuglio “no sense” di situazioni tipiche messe lì solo per confondere lo spettatore. Un film disturbante, violentissimo, (s)gradevolmente amaro per alcuni ed indigesto per molti altri... un film che, come vi dicevo in precedenza, va oltre il concetto di “torture porn”, perché ricco di spunti di riflessione agghiaccianti: per esempio... la vendetta può essere, a volte, giustificata?! Oppure... cos'è realmente un martire?! O ancora... fin che punto è giusto spingersi per soddisfare il nostro arrogante desiderio di conoscenza?! Purtroppo non volendo svelare niente della trama mi è impossibile spingermi oltre nelle considerazioni: spero vivamente di avervi incuriosito a tal punto da voler recuperare il film. Ennesimo consiglio. Cito testualmente una sovrascritta presente sulla locandina italiana del film: “Questo film mostra immagini estremamente violente e difficili da sopportare, la visione e la comprensione richiedono spettatori preparati”.
Che dirvi di più?! Benvenuti nel nuovo regno del terrore. Ah, ne approfitto per consigliarvi un altro “horror cult” francese, ovvero Alta tensione (Haute tension, 2003) di Alexandre Aja in cui vi è una scena di sesso orale con una testa mozzata... funny! Conclusione: Vivre est une maladie, la mort est le remède.

martedì 1 dicembre 2009

L'ALBERO DELLA VITA (The Fountain, 2006) di Darren Aronofsky

Darren Aronofsky è un regista newyorkese autore di quattro film in dieci anni: i suoi primi due lavori registici sono pellicole strane, particolarissime e di difficile decifrazione, che volenti o nolenti lasciano, quasi sempre, nello spettatore due sentimenti contrastanti: da una parte, a mio avviso, non si può che rimanere affascinati da film come Pigreco – il teorema del delirio (Π, 1997) e Requiem for a Dream (Id., 2000), ma dall'altra è innegabile che la visione di tali opere lasci basito, e con un senso di forte frustrazione, il pubblico. Anche la pellicola qui in esame, L'albero della vita (The Fountain, 2006), produce gli stessi effetti... anche se essa è molto meno riuscita delle due prima citate. Davvero un film indecifrabile – ed indefinito... – questo terzo lavoro del regista: un progetto che egli aveva in cantiere da parecchi anni, ma che non è mai riuscito a realizzare per i molti dubbi – giustificati per una volta – espressi dai vari produttori per quanto riguardava il tornaconto remunerativo; sicuramente è un prodotto di difficile appeal su un pubblico medio, e quindi... flop assicurato, ovviamente. Ho tralasciato volontariamente fuori dal discorso The Wrestler (Id., 2008), la sua ultima fatica, che segna una svolta più commerciale – e commerciabile – dell'autore nato nella grande mela.
Se dovessi paragonare L'albero della vita ad un precedente film di Aronofsky, sicuramente lo avvicinerei al suo primo lavoro registico... cosa hanno in comune? Delirio allo stato puro: tanto era “matematicamente” delirante Pigreco – il teorema del delirio tanto è altrettanto “misticamente” delirante questa sua pellicola del 2006. Cavolo, è talmente complicato – o forse sarebbe meglio dire sconclusionato – che faccio fatica a scrivere persino la trama. Allora, il film è diviso in tre tronconi distinti – ma forse no... – dal periodo dell'ambientazione: XVI secolo, un conquistatore spagnolo si mette sulle tracce dell'Albero della vita in grado di donare l'immortalità; XXI secolo, un ricercatore scopre un siero, ricavato da una pianta guatemalteca, in grado di guarire un babbuino malato di tumore; XXVI secolo, un astronauta/monaco buddista – o qualcosa del genere... – vola, dentro una bolla, con un morente albero verso la galassia, o meglio verso lo Xibalba. Xibalba... what? Stando al film esso è in realtà una stella morente, che veniva indicata – o paragonata – dai Maya come il loro oltretomba dove le anime dei morti rinascevano. Ci avete capito qualcosa? No? Nemmeno io. Occhei, diamo via alle danze...
Nella breve introduzione al film parlavo di tre spezzoni distinti, ma è veramente così? No, i tre mondi, o meglio livelli temporali, creati dal regista non sono affatto separati: essi si incastrano, si scontrano, si scambiano e si completano... insomma, un'unica storia che dura secoli: nel XVI secolo, un soldato spagnolo, Tomas Creo, cerca l'Albero della vita per salvare la nobildonna Isabel; nel XXI un biologo, Tommy Creo, cerca disperatamente di salvare sua moglie malata terminale di cancro; nel XXVI un astronauta, Tom, ma potrebbe essere anche un monaco o un mago, cerca di salvare un albero morente, trasportandolo nella più profonda galassia. È la versione futuristica a rivivere la sua vita come il ricercatore Tommy, ma è anche quest'ultimo a rivivere a sua volta, attraverso il libro scritto dalla moglie, la vita del conquistador Tomas nel XVI secolo... chiaro no? Come no. I due protagonisti sono interpretati, nelle tre epoche differenti, entrambi dallo stesso attore, rispettivamente Hugh Jackman e Rachel Weisz, e questo ci fa già capire qualcosa: altro non è che la storia di un uomo, prima conquistatore spagnolo, poi scienziato ed infine astronauta, che attraversa il tempo per salvare la donna che ama, prima regina, poi scrittrice ed infine incarnatasi in Albero della vita. Ma è veramente così? Difficile a dirlo... onirico come quasi nessun altro film da me visto, L'albero della vita è un calderone impazzito in cui Aronofsky butta dentro di tutto di più: la vita, la morte, l'amore, la ricerca dell'immortalità, le credenze Maya, la Bibbia, il buddismo, la scienza, la terra, il cielo, l'universo intero... il lavoro del regista newyorkese è presuntuoso, pretenzioso e pretestuoso, gioca con lo spettatore, come fa il gatto con il topo, facendoli credere di trovarsi di fronte a chissà che cosa... per poi esplodere come una bolla di sapone... troppa carne sul fuoco e per di più cucinata male. Proviamo ad analizzare ogni lasso temporale: il principale è sicuramente quello del XXI secolo con il ricercatore che cerca disperatamente una cura per il cancro della moglie. Qua abbiamo sicuramente due visioni differenti della morte: Tommy Creo non riesce ad accettare il cancro della moglie, mentre essa sembra aver trovato la pace dell'anima. Tommy rifiuta l'idea di perdere una persona amata ed è per questo che spera di trovare il suo “Albero della vita” sotto forma di un siero, tra l'altro estrapolato dalla corteccia di un albero del Guatemala che potrebbe essere definito perciò come un novello Albero della vita, in grado di curare un male “incurabile”. La scienza viene vista come l'unica soluzione al male ultimo dell'uomo, ovvero la morte: l'uomo vuole superare i limiti imposti da Dio – o da qualsiasi altra divinità... – e crearsi da solo il proprio Albero della vita, in grado si sconfiggere l'effimerità di quest'ultima. Per quanto riguarda la posizione intrapresa da Izzie, la moglie, bisogna forse ricollegarsi ancora una volta allo Xibalba: essa sa accettare la propria morte in quanto la vede come rinascita, perché da qualcosa di morente rinasce sempre dell'altro. La vita e la morte sono aspetti naturali che andrebbero vissuti in maniera naturale, secondo le leggi della natura. E nella natura la morte, in realtà, non esiste se non come forma di passaggio. La morte è l'anticamera di una nuova vita. Tutto è trasformazione. Vita e morte fanno parte di un immane processo di trasformazione, di cui noi non vediamo né l'inizio né la fine. Secondo lasso temporale, quello del XVI secolo: il conquistatore spagnolo Tomas Creo è alla ricerca dell'Albero della vita per poter così salvare la sua amata, la regina Isabel, la quale è sotto assedio da parte del Grande Inquisitore spagnolo. Ella è considerata un'eretica in quanto convinta della possibilità della vita eterna, scardinando così tutti i credi cristiani. In questo secondo spezzone abbiamo una visione cabalistica - da Cabalà, ovvero la sapienza mistica spirituale contenuta nella bibbia ebraica –dell'Albero della vita: quest'ultimo in principio era presente nell'Eden insieme all'Albero della conoscenza del bene e del male, quello da cui Adamo ed Eva mangiarono il frutto proibito. Dopo il peccato, l'Albero della vita fu nascosto, per impedire che Adamo, con il male che aveva ormai assorbito, avesse accesso al segreto della vita eterna e, così facendo, rendesse assoluto il principio del male. Dopo aver perso lo stato paradisiaco del Giardino dell'Eden, l'umanità non ha più accesso diretto all'Albero della vita, che rimane l'unica vera risposta ai bisogni d’infinità, di gioia e d’eternità che ci portiamo dentro. Ed è da quel momento che l'uomo è alla continua ricerca di tale albero per poter scoprire il segreto della vita eterna. Il mito di Adamo ed Eva può essere collegato benissimo anche alla vicenda di Tommy ed Izzie, trattata in precedenza: come non riscontrare nel primo un novello Adamo? Cacciato dalla condizione di pace eterna del paradiso terrestre – dalla malattia della moglie –, egli cercherà in ogni modo di ritrovarla: Aronofsky ha esemplificato nella lotta di un biologo per salvare l'amata moglie dal tumore al cervello il vagheggiamento, ricorrente in ogni tempo – e qui ci ricolleghiamo al XVI secolo –, di un'arma per sconfiggere i limiti imposti all'uomo dalla caduta dal paradiso. Arriviamo ora al terzo e ultimo segmento di film, ambientato nel XXVI secolo... esso è veramente, a mio avviso, delirante. Tom, un “santone” - non so più come definirlo tanto è indefinito... - sta viaggiando, dentro una bolla d'aria, verso la galassia con un albero morente. A questo punto pongo delle congetture: allora l'albero morente è l'Albero della vita ed è la rappresentazione “naturalis” di Izzie. Tom sta volando verso una stella morente – deduco lo Xibalba – per cercare di far sopravvivere l'albero e cercare così di donare nuova vita a sua moglie, o semplicemente ricongiungersi con essa nei cieli. Questo ultimo segmento profuma tanto di buddismo... e onestamente mancava proprio solo questo nella pellicola di Darren Aronofsky: il calvissimo Hugh Jackman non può che far pensare ad un monaco buddista intento nella sua contemplazione e in fine preda di una trasfigurazione che lo riporta indietro nel tempo, nel XVI secolo in terra Maya, dove tutto ebbe inizio... ma anche no! Esso è veramente un finale terribilmente New Age... da far accapponare la pelle.
Spiegazione – ??? – finale... e viaz! Allora il tema principale de L'albero della vita dovrebbe essere la serena accettazione della morte. La “colpa” del protagonista – in tutte le tre epoche... - è quella di non saper accettare la futura morte della persona amata: nel passato (XVI secolo) Tomas sa benissimo che se non troverà l'Albero della vita condannerà a morte la regina Isabel e lo stesso si ripete nel presente (XXI secolo) con Tommy che cerca disperatamente una cura per guarire il cancro della moglie. Mentre nel futuro (XXVI secolo) egli cercherà in tutti i modi di salvare l'Albero della vita verso cui egli ha trasferito tutto l'amore che provava per la sua compagna: finché esso sarà in vita, Tom si potrà ricordare di Izzy. Ultima annotazione di vitale importanza però... come vi ho detto in precedenza, le vicende del XVI secolo sono attinte da un libro scritto da Izzie: tale libro resta però incompiuto e la moglie dice a Tom di completarlo lui, invitandolo in tal modo a giungere alle conclusione a cui essa è già arrivata e che lo porteranno ad una serena accettazione della morte. Dopo la morte di Izzie il marito si troverà a vagare nello spazio (XXVI secolo): durante questo tragitto Tom avrà continue apparizioni della moglie intenta a ricordargli di finire il libro, apparizioni a cui egli reagirà con forza... intimando ad Izzie anche di andarsene e di non farsi più vedere. Questo perché il protagonista è internamente combattuto se continuare la sua lotta personale, tentando di salvare l'albero e quindi mantenere in vita l'ossessione della moglie, o seguire la strada indicatagli da quest'ultima. Quando si è quasi in prossimità dello Xibalba Tom si rende conto di non poter più tenere in vita l'albero e capisce finalmente che solo morendo potrà rinascere a nuova vita, proprio come la stella nebulosa di cui gli aveva parlato Izzie. Sarà veramente così? La mano sul fuoco io non ce la metto...
Pellicola, come dicevo nell'introduzione, nata male e finita peggio. Le traversie in fase di gestazione devono aver influito in modo sostanziale sulla mala riuscita del film: esso era in preparazione dal 1999, sembrava che dovesse essere interpretato da Brad Pitt e Cate Blanchett e, soprattutto, che dovesse avere un budget sostanzioso – sopra i 70 milioni di $ - ma alla fine non se ne fece nulla... troppi dubbi su un soggetto così complesso e poco vendibile. Quando finalmente la situazione si bloccò il cash era stato praticamente più che dimezzato e si passò ai meno rischiosi 30 milioni di $: troppo pochi per un progetto di tale portata. Poi Darren Aronofsky, in versione novello Icaro, ci ha messo del suo puntando troppo in alto e creando alla fine un pasticciaccio di proporzioni bibliche. Conclusione: chi gioca con il fuoco...